L’Italicum corretto dalla Corte: maggioritario eventuale su base proporzionale

di Gabriele Maestri

fac-simile-italicum

Il facsimile di scheda non cambierà

Alla fine il verdetto sulla legge elettorale della Camera è arrivato: tra il tutto e il niente, in fondo si è arrivati a una via di mezzo, un po’ al ribasso. Dei tanti profili di possibile illegittimità costituzionale della legge n. 52/2015 sollevati da cinque tribunali, infatti, la Consulta ne ha ritenuti fondati due, quelli che avevano suscitato l’attenzione di tutti i giudici a quibus. Per leggere il testo della sentenza e riflettere in modo più compiuto e accorto su come la Corte costituzionale abbia deliberato (specie su alcuni punti particolarmente delicati), occorrerà aspettare qualche settimana; nel frattempo, alcune osservazioni è già lecito farle sulla base del comunicato stampa diffuso poche ore fa e che si riporta qui per intero.

Decisione sulla legge elettorale cd. Italicum

Oggi, 25 gennaio 2017, la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale della legge elettorale n. 52 del 2015 (c.d. Italicum), sollevate da cinque diversi Tribunali ordinari.
La Corte ha respinto le eccezioni di inammissibilità proposte dall’Avvocatura generale dello Stato. Ha inoltre ritenuto inammissibile la richiesta delle parti di sollevare di fronte a se stessa la questione sulla costituzionalità del procedimento di formazione della legge elettorale, ed è quindi passata all’esame delle singole questioni sollevate dai giudici.
Nel merito, ha rigettato la questione di costituzionalità relativa alla previsione del premio di maggioranza al primo turno, sollevata dal Tribunale di Genova, e ha invece accolto le questioni, sollevate dai Tribunali di Torino, Perugia, Trieste e Genova, relative al turno di ballottaggio, dichiarando l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che lo prevedono.
Ha inoltre accolto la questione, sollevata dagli stessi Tribunali, relativa alla disposizione che consentiva al capolista eletto in più collegi di scegliere a sua discrezione il proprio collegio d’elezione. A seguito di questa dichiarazione di incostituzionalità, sopravvive comunque, allo stato, il criterio residuale del sorteggio previsto dall’ultimo periodo, non censurato nelle ordinanze di rimessione, dell’art. 85 del d.p.r n. 361 del 1957.
Ha dichiarato inammissibili o non fondate tutte le altre questioni.
All’esito della sentenza, la legge elettorale è suscettibile di immediata applicazione.

dal Palazzo della Consulta, 25 gennaio 2017.

cortecostituzionaleLa prima considerazione da fare riguarda necessariamente l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sulla legge elettorale. Avevo già detto ieri come non fosse scontato un esame nel merito da parte della Corte, sia per ragioni generali (alto grado di politicità della decisione sulle leggi elettorali, difficoltà nell’individuare nella domanda alla base dei giudizi a quibus un oggetto ulteriore rispetto alla richiesta di sottoporre la questione alla Consulta), sia per profili attinenti direttamente a questa legge elettorale, mai applicata finora e senza che il giudice delle leggi si fosse mai espresso, anche in modo “atipico”, sulla legittimità di alcune parti di essa (a differenza, su entrambi i profili, di quanto era avvenuto con il Porcellum).

Il fatto che la Corte costituzionale abbia in primo luogo “respinto le eccezioni di inammissibilità proposte dall’Avvocatura generale dello Stato” (eccezioni ampiamente prevedibili) fa pensare, fin d’ora, al fatto che sia stata ufficialmente (aperta, se non) spalancata, la via del ricorso al giudice ordinario civile per far dichiarare la lesione del proprio diritto di voto secondo Costituzione, come strumento per far esprimere la Consulta su ogni legge elettorale dettata per il Parlamento. La lettura della sentenza risulterà illuminante da questo punto di vista, ma già ora sembra proprio di poter dire che qualunque legge elettorale politica potrebbe essere sottoposta allo scrutinio della Corte: può essere che il giudice delle leggi abbia deliberatamente scelto di lasciare aperta la strada tracciata con la sentenza n. 1/2014, probabilmente per la difficoltà di sottoporre in altro modo a esame le leggi elettorali (stante anche la mancata entrata in vigore del controllo preventivo che era parte della riforma costituzionale respinta con il referendum).

Il successivo punto del comunicato, in base al quale la Consulta “[h]a inoltre ritenuto inammissibile la richiesta delle parti di sollevare di fronte a se stessa la questione sulla costituzionalità del procedimento di formazione della legge elettorale”, riguarda un’espressa richiesta dei ricorrenti – in particolare, ma non solo, dall’avvocato Enzo Palumbo – che già nei giudizi a quibus avevano provato a sollecitare i giudici a sollevare anche la questione relativa al procedimento legislativo seguito per approvare l’Italicum: in particolare, si lamentava il mancato rispetto della “procedura normale” richiesta per le leggi elettorali dall’art. 72, comma 4 Cost., a causa della mancata approvazione della relazione in commissione al Senato, dell’intervento del “supercanguro” in aula a Palazzo Madama, della mancata approvazione della relazione in commissione alla Camera, con tanto di sostituzione di dieci deputati di maggioranza “dissidenti”, e – soprattutto – dell’approvazione finale a Montecitorio con il voto di fiducia sulla maggior parte del testo del d.d.l.

E’ innegabile che l’argomento abbia almeno in parte un suo interesse: l’apposizione di questioni di fiducia su disposizioni tanto articolate (si pensi ai 38 commi dell’art. 2 della legge n. 52/2015) si presenta davvero problematica, se si ha come fine il rispetto della qualità dei lavori parlamentari. La questione, tuttavia, non ha avuto e non avrà in alcun modo ingresso nelle argomentazioni della Corte: scorrendo le cinque ordinanze di rimessione, si può agevolmente vedere che da tutti i tribunali a quibus quel primo profilo di illegittimità è stato dichiarato manifestamente infondato, cosa che deve avere inevitabilmente spinto la Consulta a dichiarare la richiesta delle parti come inammissibile.

Passando all’esame del merito, va innanzitutto notato che nel comunicato è assente ogni riferimento all’apporto del Tribunale di Messina. La mancanza, assolutamente evidente (quella prima ordinanza aveva sollevato tutti e tre i profili critici di cui dà conto indicato, assieme ad altri non rilevati dagli altri giudici di primo grado e assolutamente non considerati dell’unica comunicazione “ufficiale” proveniente dalla Consulta), francamente è difficile da spiegare. Unico motivo plausibile potrebbe essere – ma per trovare conferma bisognerà necessariamente aspettare il testo della sentenza – un pronunciamento negativo da parte della Corte sulle sole questioni di provenienza messinese per mancanza di rilevanza delle stesse: l’ordinanza di riflessione, infatti, è datata 17 febbraio 2016, un tempo in cui l’Italicum era già entrato in vigore ma non era ancora produttivo di effetti, cosa che può avere permesso al giudice delle leggi di ritenere insussistente il requisito della rilevanza. Anche una scelta di questo tipo lascerebbe almeno in parte perplessi, se non altro perché le norme impugnate erano già vigenti e sarebbero state certamente produttive di effetti al tempo del giudizio della Corte costituzionale; in ogni caso, non sembra ci siano altre ragioni tali da giustificare questa singolare “sparizione”.

senato31Quanto  ai singoli profili di eventuale illegittimità, era chiaro che il premio di maggioranza sarebbe stato uno dei punti più delicati da considerare: la Corte ha scelto di salvarlo parzialmente, cambiando peraltro del tutto la sua natura e, allo stesso tempo, quella del sistema elettorale. Come si è visto ieri, soltanto due tribunali (quello di Genova e, prima ancora, quello di Messina) avevano individuato criticità nell’applicazione del premio anche al primo turno, vista la mancata previsione di ogni legame tra voti ricevuti e numero totale degli aventi diritto al voto, cosa che avrebbe rischiato di produrre un’eccessiva distorsione della rappresentanza: il rigetto della questione da parte della Consulta sembra aver fugato del tutto questi dubbi, per cui il 40% è stato ritenuto percentuale sufficientemente solida per l’attribuzione di un premio.

Tutt’altro discorso, ovviamente, è stato fatto con riferimento al ballottaggio tra le due liste più votate al primo turno: un ballottaggio che, all’evidenza, aveva l’unico scopo di assegnare il premio alla più votata delle due liste, a prescindere dall’affluenza degli elettori. Come si è già detto, su questo punto si erano concentrate le critiche di tutti i tribunali ed è proprio il primo punto che il giudice delle leggi ha ritenuto di dover accogliere, “dichiarando l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che […] prevedono” lo stesso ballottaggio, dal momento che non avrebbe avuto alcun senso mantenerlo togliendo solo l’assegnazione del premio. È probabile che sulla decisione abbiano influito soprattutto le censure che lamentavano l’assenza di una soglia minima di voti (assoluti e anche in rapporto agli aventi diritto) per far scattare il premio al secondo turno, con ciò che potevo seguirne in termini di alterazione della rappresentatività e del “peso” dei voti, ma anche la considerazione sul carattere del tutto inedito di un ballottaggio non tra persone, ma tra liste.

multicandidatureLa seconda questione affrontata dal comunicato della Corte riguarda le multicandidature, trattata fin qui soltanto – in termini negativi, quanto alla libertà di voto ex art. 48, comma 2 Cost. – in un obiter dictum nella sentenza n. 1/2014: va peraltro detto che i giudici a quibus non avevano contestato tanto la candidatura multipla in sé, istituto comunque non privo di criticità ma censurato esclusivamente dal Tribunale di Messina (peraltro solo con riferimento agli eletti delle minoranze), quanto piuttosto il meccanismo dell’opzione, che lasciava completamente al multicandidato eletto più volte la scelta del collegio di elezione, senza che l’elettore potesse minimamente prevedere quale spazio concreto avrebbero avuto i candidati che avevano raccolto più preferenze.

Se si scorre di nuovo il contenuto della sentenza n. 1/2014, si può trovare probabilmente la chiave di lettura corretta della decisione della Corte: da una parte, il giudice delle leggi non si era espresso negativamente su “sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi”, come di fatto si presentava l’Italicum (dunque non si poteva attaccare direttamente il capolista bloccato) né sulle candidature multiple in sé (ne aveva parlato solo all’interno delle liste lunghe e bloccate); era invece stato intransigente nel bocciare congegni i meccanismi che “coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento”, scenario inevitabile nel momento in cui chi vota ha pressoché la certezza che la scelta sul collegio di opzione e, dunque, su quale fosse il candidato “da sacrificare” sarebbe stata fatta dal partito.

Non stupisce allora che la Consulta abbia ritenuto illegittima la disposizione che “consentiva al capolista eletto in più collegi di scegliere a sua discrezione il proprio collegio d’elezione”. Più singolare forse, per decidere comunque quel collegio, è l’impiego del criterio residuale del sorteggio (sempre compreso nell’art. 85 del t.u. per l’elezione della Camera, così come modificato dall’Italicum: le ordinanze di rimessione avevano impugnato l’intero articolo, ma nella parte motiva nessuna doglianza riguardava l’ultimo periodo della disposizione, non toccato dalla modifica) così da rendere comunque applicabile la legge; resta inteso, peraltro, che al sorteggio non si procederà certo dopo 8 giorni dalla proclamazione, ma subito dopo tale operazione.

In questo modo, il sistema elettorale tracciato dalla Corte si presenta come un maggioritario puramente eventuale, disposto a premiare una minoranza molto consistente, ma pronto – qualora nessuna lista superi la “soglia minima di voti” in cui è stato trasformato il 40% originariamente fissato come livello per non far scattare il ballottaggio – a procedere a una distribuzione meramente proporzionale – e nazionale – tra tutte le forze che abbiano superato lo sbarramento del 3%, con l’assegnazione dei seggi innanzitutto ai capilista bloccati (eventualmente applicando il sorteggio in caso di multielezione) e, in seguito, ai candidati più votati in base alla doppia preferenza di genere.

L’accesso alla rappresentanza parlamentare, peraltro, è il profilo che maggiormente distingue l’Italicum “corretto” dal Consultellum seguito alla sentenza n. 1/2014: anche quello disegnato allora, infatti, era un sistema proporzionale, ma aveva lasciato in piedi, tanto alla Camera quanto al Senato, il sistema delle soglie differenziate che trattavano meglio chi aveva stretto un accordo di coalizione (e permettevano anche il ripescaggio, all’interno della stessa coalizione, della lista più votata tra quelle che non erano arrivate al 2%). Ora alla Camera tutto questo è sparito e, anzi, l’accesso a Montecitorio appare più facile e più logico: visto che l’Italicum aveva bandito le coalizioni e questo non è cambiato, alle singole forze sarà richiesto almeno il 3% – e non più il 4% – per avere rappresentanza (ottenendo a questo punto almeno 18 deputati), senza che sia di fatto lasciata ai partiti maggiori la scelta di stringere o meno una coalizione con le forze minori e abbassare loro l’asticella del consenso minimo da ottenere (dal 4% al 2% o, per la best loser, anche meno), com’era accaduto con il Consultellum.

Il problema, tuttavia, resta al Senato e questo mette in luce la criticità rimasta in campo, tutt’altro che secondaria. Non sembra decisiva la questione del Premio, assente a Palazzo Madama (ma, come si è detto, di difficile applicazione anche a Montecitorio), mentre lo è molto di più la questione delle soglie di assegnazione dei seggi: se alla Camera basta il 3% per entrare, al Senato – la cui normativa elettorale prevede ancora la possibilità di stringere coalizioni – a livello regionale le liste singole dovrebbero ottenere almeno l’8%, mentre quelle coalizzate potrebbero fermarsi al 3% (a patto che la coalizione raggiunga il 20%). Sembra assolutamente necessario intervenire almeno su queste differenze irragionevoli, magari uniformando i due sistemi eliminando a Palazzo Madama le coalizioni e le soglie diverse dal 3%, anche per togliere potere di ricatto ai partiti maggiori; già che ci si è, sarebbe opportuno introdurre anche al Senato la doppia preferenza di genere, visto che sarebbe poco comprensibile la sua mancata adozione a fronte della sua presenza alla Camera, alle elezioni del Parlamento Europeo e dei consigli comunali sopra i 5mila abitanti, nonché in gran parte delle leggi elettorali regionali (non in tutte, purtroppo).

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Italicum, aspettando la Consulta

di Gabriele Maestri

cortecostituzionaleDalle ore 9 e 30 di questa mattina si tiene presso Palazzo della Consulta l’udienza pubblica della Corte costituzionale relativa ai cinque giudizi, via via riuniti, di legittimità costituzionale della legge elettorale attualmente vigente ed efficace per la Camera dei deputati. Si tratta della legge n. 52/2015, giornalisticamente nota come Italicum e pensata per essere operativa dopo l’entrata in vigore della riforma della Parte II della Costituzione: detta riforma non ha mai prodotto effetti, vista la vittoria del “No” al referendum confermativo dello scorso 4 dicembre 2016, ma la legge elettorale è rimasta lì ed è applicabile, per lo meno a Montecitorio: per il Senato, infatti, si dovrebbe applicare ciò che è rimasto del cd. “Porcellum”, dopo l’intervento della stessa Consulta all’inizio del 2014, con la sentenza n. 1.

Mentre si attende la decisione del collegio – presieduto da Paolo Grossi, ordinario di storia del diritto medievale e moderno, e avente come relatore il costituzionalista Nicolò Zanon – sembra il caso di cogliere l’occasione per fissare alcuni punti fermi su quanto potrebbe avvenire a breve, sul piano giuridico e politico.

La questione dell’ammissibilità

Innanzitutto, non bisogna dare per scontato che la Corte “decida di decidere” o, più precisamente, scelga di entrare nel merito delle questioni sollevate dai tribunali. Lo stesso dubbio, in effetti, era stato espresso da molti costituzionalisti alla vigilia della sentenza della Consulta sul Porcellum: un po’ perché la scelta della legge elettorale è (forse più di ogni altro tema) una political question, che è giusto sia affrontata in sede politica e dagli organi rappresentativi del popolo, dunque dalle Camere, un po’ perché fino a quel momento per gli studiosi e anche per diversi giudici era sembrato impossibile instaurare un processo all’interno del quale sollevare correttamente la questione di legittimità costituzionale.

La valutazione richiesta al giudice a quo deve infatti verificare, oltre che l’effettiva necessità di applicare la norma potenzialmente illegittima al caso in discussione, anche l’esistenza di un oggetto del processo (e della domanda alla base) separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale: il processo non può essere avviato solo per impugnare le norme “incriminate” davanti alla Corte. Ci si aspettava una pronuncia di inammissibilità, ma i giudici costituzionali avevano ritenuto che il giudizio principale avesse il fine di «accertare la portata del proprio diritto di voto, resa incerta da una normativa elettorale in ipotesi incostituzionale»: domandare al giudice di accertare i “confini” del proprio diritto di voto era qualcosa di più rispetto a chiedergli di investire la Consulta del controllo di costituzionalità sulle norme elettorali alla base del diritto di voto. Molti studiosi non accettarono pacificamente quella decisione, altri ritennero che si fosse sfondata la porta che fino ad allora (soprattutto per il regime di verifica dei poteri, riservato alle Camere) aveva impedito ogni intervento della Consulta sulle leggi elettorali: in quell’occasione, la Corte giudicò prioritario evitare la permanenza di «zone franche» nella giustizia costituzionale, a costo di forzare la linea tenuta sino a quel momento.

Proprio in nome di quella porta sfondata, coloro che volevano affossare la legge elettorale approvata dal Parlamento nel 2015 si sono rivolti a decine di tribunali, nella speranza che vari giudici accettassero di seguire il percorso aperto nel 2013 dalla Cassazione e avallato dalla Consulta. Non è affatto scontato, tuttavia, che anche questa volta il giudice delle leggi decida di intervenire sul merito. Coerenza con l’ultima decisione presa, ovviamente, farebbe optare per l’ammissibilità delle questioni, ma è il caso di ricordare che il contesto è almeno in parte diverso rispetto a quello che ha portato alla decisione sul Porcellum. Si deve ricordare che la Corte costituzionale era intervenuta ufficialmente in due occasioni (le sentenze del 2008 che avevano ammesso i quesiti referendari Guzzetta-Segni e quella del 2012 che aveva bocciato i quesiti del comitato Morrone-Parisi – difeso tra l’altro da Enzo Palumbo, oggi tra i ricorrenti davanti al tribunale di Messina, il primo a sollevare la questione di costituzionalità sull’Italicum) e, nel 2013, pure con dichiarazioni inequivoche dei presidenti Franco Gallo e Gaetano Silvestri (costituzionalista), per mettere in guardia il Parlamento sugli “aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi”. Si potrebbe dire, dunque, che la sentenza n. 1/2014 era stata preceduta da una serie di moniti e avvertimenti al legislatore, nessuno dei quali era stato colto: la pronuncia d’illegittimità costituzionale, dunque, poteva anche leggersi come una risposta “necessaria” di fronte al prolungato stallo parlamentare.

In questo caso, invece, non risulta alcun intervento preventivo, nemmeno informale, sulla questione della legge elettorale; di più, le nuove norme non sono mai state applicate, dunque non c’è nemmeno un precedente da far valere e alla Corte sarebbe richiesta una semplice valutazione “sulla carta”, del tutto astratta, mentre di norma i giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale (nati all’interno di un processo, non essendo consentito impugnare direttamente le norme davanti alla Consulta, al di là del rapporto tra Stato e Regioni) partono sempre da una vicenda concreta che consente al giudice di chiedere alla Corte un intervento chirurgico sulla legge, togliendo o aggiungendo (sulla base di altre norme dell’ordinamento) ciò che è strettamente necessario per rimediare all’eventuale incostituzionalità fatta emergere dal caso pratico. Per queste ragioni, non è scontato che il giudice delle leggi voglia continuare sulla strada aperta con il Porcellum; allo stesso modo, potrebbe invece prevalere la linea demolitoria, per ovviare all’inattività delle Camere.

I punti che la Corte potrebbe esaminare

SenatoSe la Corte dovesse decidere di entrare nel merito delle questioni, potrebbe intervenire (solo) su alcuni punti ben determinati, ossia quelli che i singoli giudici a quibus hanno ritenuto di sottoporle, nient’affatto corrispondenti alla totalità dei profili di incostituzionalità rilevati dai vari ricorrenti. Vale la pena ripercorrerli in breve:

  • Il premio di maggioranza: la questione è considerata dal Tribunale di Messina e, sia pure in modo diverso, da quello di Genova. Senza censurare il premio in sé e per sé, per i giudici a quibus quello previsto dall’Italicum sarebbe irragionevole per la mancata previsione di “un necessario rapporto tra voti ottenuti rispetto non già ai voti validi, ma al complesso degli aventi diritto al voto”, cosa che distorcerebbe e comprimerebbe il diritto a un voto uguale e diretto anche qualora una lista superasse il 40% (dei voti validi) al primo turno. Il Tribunale di Genova ha impugnato le norme considerando anche due casi limite: il primo è quello della lista seconda classificata che superi al primo turno il 40%, ma veda la sua rappresentanza molto compressa dal pacchetto di 340 seggi assegnato alla prima classificata (con una percentuale di poco superiore); il secondo prevede l’obbligo di ballottaggio anche quando la lista più votata al primo turno, pur non arrivando al 40% (per una notevole frammentazione del voto tra forze che non superano la soglia del 3%), riesca a ottenere comunque 340 seggi.
  • L’assegnazione del premio di maggioranza al ballottaggio: si tratta di uno degli argomenti più sollevati, su cui tutte e cinque le ordinanze si sono diffuse. In particolare, la criticità sarebbe data dall’assenza di una soglia minima di voti (e, come messo in luce dal Tribunale di Perugia, di un quorum di partecipazione al secondo turno) come condizione per accedere al premio, cosa che distorcerebbe troppo l’eguaglianza del voto e il principio di rappresentanza: del premio, infatti (come sottolineato dal Tribunale di Torino), potrebbe giovarsi “una formazione che è priva di adeguato radicamento nel corpo elettorale”.
  • La distribuzione nazionale dei seggi: l’argomento è stato sollevato solo dal Tribunale di Messina, anche se è stato oggetto di numerose polemiche nei mesi precedenti. In particolare, la prevalenza data alla distribuzione nazionale dei seggi potrebbe provocare “slittamenti” di seggi da un territorio (in cui i candidati in campo non bastano a coprire i posti ottenuti) a un altro (in cui invece i candidati sono di più dei posti ottenuti), ledendo così i principi di rappresentatività territoriale e del voto diretto.
  • Le candidature multiple dei capilista: questo è l’altro argomento sollevato sostanzialmente da tutti i tribunali. Il problema non sarebbe dato tanto dai capilista “bloccati” (argomento che però il Tribunale di Messina ha sollevato, con riguardo alle forze di minoranza, la cui rappresentanza parlamentare sarebbe largamente dominata proprio dai capilista bloccati), quanto – come sottolineato da tutti gli altri giudici a quibus – dalla possibilità delle candidature multiple (fino a dieci per ogni candidato di collegio) e dal fatto che sia rimessa del tutto al capolista multicandidato e multieletto l’opzione per l’uno o per l’altro collegio, senza alcun vincolo: in questo modo l’elettore “viene privato – come sottolineato a Perugia – del proprio diritto di scegliere i propri rappresentanti con le preferenze”, non avendo alcuna possibilità di prevedere per quale collegio il capolista opterà (col rischio che resti il “primo dei non eletti” un candidato che ha ottenuto molte più preferenze di chi, in virtù dell’opzione, viene invece eletto altrove).
  • Le soglie di accesso al Senato: il problema – considerato solo a Messina – sarebbe dato dall’irragionevolezza delle soglie di sbarramento previste dal cd. Consultellum (dunque ciò che resta del Porcellum per il Senato, dopo la sentenza n. 1/2014), richiedenti il raggiungimento del 20%, del 3% e dell’8% rispettivamente alle coalizioni di liste, a ciascuna lista coalizzata e alle liste esterne alle coalizioni, a fronte di una soglia unica del 3% per tutte le liste alla Camera (senza possibilità di stringere coalizioni).
  • L’applicazione dell’Italicum alla sola Camera: si tratta di una questione – anch’essa sollevata dal solo Tribunale di Messina – inevitabilmente legata alla mancata entrata in vigore della riforma costituzionale. I ricorrenti e il giudice, in particolare, chiedono alla Corte di valutare se sia incostituzionale la previsione, all’interno dell’Italicum, dell’applicazione della stessa legge a partire dal 1° luglio 2016 (senza legarla invece all’entrata in vigore della riforma), a prescindere dalla legge elettorale vigente per il Senato: ciò, in caso di sopravvivenza del Consultellum (e, come poi è avvenuto, dello stesso Senato), farebbe così coesistere due sistemi elettorali del tutto diversi, dando origine a due maggioranze differenti.
  • Il voto in Trentino – Alto Adige: si tratta di una questione sollevata dal solo Tribunale di Genova (gli altri hanno invece ritenuto sempre non rilevanti le questioni legate a minoranze linguistiche, sul presupposto che i ricorrenti non ne facessero parte). In pratica, per i giudici rimettenti sarebbe leso il diritto di voto libero e uguale nel Trentino – Alto Adige, qualora i tre seggi di recupero proporzionale venissero assegnati a una lista non apparentata con alcuna lista nazionale o espressione della minoranza linguistica vincitrice nella suindicata regione: ciò comporterebbe una violazione nella rappresentatività della minoranza nazionale, rispetto alla minoranza linguistica assegnataria dei tre seggi di recupero proporzionale.

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Il voto per Mattarella: “la via maestra, ma una scelta molto seria”

di Gabriele Maestri

foto-2Ambiente un po’ meno intimo, più istituzionale ma non algido, più “alla mano”. Questa è stata l’impressione “a colpo d’occhio” trasmessa dalle prime inquadrature del messaggio di fine 2016 del Presidente della Repubblica, il secondo di Sergio Mattarella. Niente studio “alla vetrata”, niente oro o colori brillanti, niente caminetto del salottino dell’appartamento privato come l’anno scorso: questa volta, per le sue “esternazioni codificate” di fine anno, il Capo dello Stato ha scelto una delle sale del Torrino.

Per i diciassette minuti di discorso, il “set” è stato di certo studiato a fondo (quell’ambiente non è certo uno dei più noti e utilizzati del Quirinale, né sembra il più adatto per ricevere persone): nessun colore squillante, nemmeno quello della poltrona dorata della volta scorsa, sostituita da una sedia imbottita di legno al colore naturale, più caldo e familiare. Al di là dei fari per le riprese, si è fatta notare solo la luce attenuata delle lampade, trasmettendo un clima più ovattato, cosa che la scelta di un ambiente più “istituzionale” dello scorso anno avrebbe potuto non creare.

Sarà stato forse merito anche del setting scelto (oltre che della maggior esperienza maturata fin qui) se Mattarella, tutto sommato, è apparso meno imbarazzato e più sciolto rispetto al suo primo messaggio: lo dimostravano anche lo sguardo quasi sempre verso le camere e l’affidamento più consapevole al teleprompter che suggeriva il testo, senza che le mani questa volta reggessero alcun foglio. Il Presidente aveva bisogno di sentirsi a proprio agio, per poter far sentire a loro agio gli Italiani cui si rivolgeva.

Non stupisce, da questo punto di vista, che il discorso sia iniziato ponendo l’accento su ciò che ha unito e unisce il Paese in “una comunità di vita”. Il riferimento è alle “energie positive” manifestate dalla gente comune e da chi si spende per gli altri, alla voglia di rievocare le radici della nostra democrazia (e della partecipazione delle donne, conquistata con tanta fatica), così come alla reazione accorata di vicinanza e solidarietà verso le vittime del terrore, della vergogna di Stato (come Giulio Regeni), degli incidenti e delle calamità naturali, in particolare del terremoto.

Era ed è certamente questa “l’Italia migliore” (anche se Mattarella non ha usato quest’espressione), la stessa che si è entusiasmata in modo genuino per le vittorie azzurre nello sport (bello il riferimento a Bebe Vio e al suo “entusiasmo travolgente”) o che può essere stata contenta che Salvatore Girone e Massimiliano Latorre abbiano potuto trascorrere entrambi in Italia il Natale (peccato solo che per qualcuno il riferimento ai marò sarà l’unica cosa da salvare del discorso di fine anno…). Il Presidente, tuttavia, ha subito precisato che “la comunità va costruita, giorno per giorno, nella realtà”: proprio qui, dopo aver delineato con semplicità e nettezza ciò che unisce il Paese, il discorso si è spostato su quello che lo divide.

foto-3Non è un caso che, dopo l’inevitabile riferimento al lavoro che manca o non dà abbastanza da vivere, Mattarella abbia parlato espressamente di “fratture da prevenire o da ricomporre”. E se ha subito parlato di distanze sociali, lavorative, economiche tra gruppi di persone o parti d’Italia, il cuore del discorso era quello delle fratture politico-sociali, emerse fin qui o a rischio di nascere in futuro. L’invito a ricomporre e prevenire è rivolto a ogni cittadino, ma soprattutto a “chi ha la responsabilità di rappresentare il popolo, a ogni livello”.

Questo doppio livello di azione e testimonianza è emerso in particolare con riguardo all’insicurezza legata al terrorismo e alla presenza dei migranti sul territorio italiano, uno stato d’animo da non sottovalutare, ma che “non va alimentato, diffondendo allarmi ingiustificati”. Inevitabile, a quel punto, il riferimento a un “insidioso nemico della convivenza”: l’odio “come strumento di lotta politica”, magari anche all’interno della Rete, trasformata “in un ring permanente, dove verità e falsificazione finiscono per confondersi”. E’ probabile che il riferimento all’odio e alla violenza verbale, come minaccia alla sopravvivenza della società, non sia piaciuto ad almeno due forze politiche presenti in Parlamento; quanto all’accenno a internet e alle bugie che vi circolano, potrebbe rimandare al recentissimo invito – subito attaccato da Beppe Grillo – del presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella alla creazione di una rete di autorità nazionali indipendenti volte a individuare le “bufale on line” e a sanzionarne gli autori. Di certo, però, quello di Mattarella è solo un appello politico (nel senso più alto del termine), tanto condivisibile quanto privo di cogenza.

Al di là del riferimento ai giovani – “la generazione più istruita” rispetto alle precedenti ma anche quella che soffre di più sul piano del lavoro e del protagonismo nella vita sociale di questo Paese – e all’Europa che, anche grazie a loro, non è “semplicemente il prodotto di alcuni Trattati” e non dev’essere più “divisa e inerte, come avviene per l’immigrazione”, ciò che i commentatori si attendevano di più era il “cenno alla vita delle nostre istituzioni”, offerto da Mattarella quasi alla fine del suo discorso: istituzioni “concepite come uno strumento a disposizione dei cittadini”, come “luoghi della sovranità popolare, che vanno abitati se non vogliamo che la democrazia inaridisca”.

Per il Presidente i cittadini hanno scelto di abitare quei luoghi anche di recente, con l’alta affluenza al referendum costituzionale. Avrebbe ben potuto Mattarella ribadire le affermazioni fatte poco prima sui pericoli dell’odio come strumento di lotta politica, vista la quantità di fiele e veleni sparsa in abbondanza nei mesi precedenti il voto da parte di molti sostenitori del Sì e del No; ha preferito limitarsi a considerare la consistente partecipazione dei cittadini alla consultazione come “segno di grande maturità democratica”. La lettura naturalmente (e purtroppo) coglie solo in parte le ragioni dell’affluenza, saremmo felici se a spingere alle urne molti italiani fosse stato solo questo e se il voto fosse stato esercitato da tutti in piena consapevolezza; se però dell’anno che si spegne si deve cogliere il meglio, sul punto ci si può fermare qui.

scalfaro-1994

Il discorso di Scalfaro del 1994

Ancora più atteso, se possibile, era il passaggio sulla nascita del governo Gentiloni e, soprattutto, sulla scelta di non sciogliere le Camere, come invece avrebbe preferito più di un cittadino che si è rivolto direttamente al Presidente via lettera. E’ inevitabile che torni alla mente un altro messaggio di fine anno, quello pronunciato da Oscar Luigi Scalfaro nel 1994, all’indomani della sua ferma decisione di non andare a nuove elezioni immediate, richieste invece da Silvio Berlusconi dopo le sue dimissione: in quell’occasione Scalfaro sottolineò che “il Presidente della Repubblica, secondo dettato costituzionale, non può fare prevalere nessuna sua tesi personale, ma deve registrare la volontà del Parlamento” e “quando la realtà parlamentare fosse inidonea a mettere al mondo un governo, prevale talmente il Parlamento che il Presidente della Repubblica, prima di sciogliere, deve sentire il parere del Presidente del Senato e il parere del Presidente della Camera, anche se non sono pareri vincolanti, cioè che lo vincolano”.

Anche Mattarella si è riferito alla volontà della maggior parte del Parlamento, ma questa volta con riferimento a un tema specifico e che lui ben conosce: quello della legge elettorale. E’ chiarissimo il riferimento alla necessità di “regole elettorali chiare e adeguate perché gli elettori possano esprimere, con efficacia, la loro volontà e questa trovi realmente applicazione nel Parlamento che si elegge”: una necessità, dunque, non dei politici, ma in funzione degli elettori stessi. Altrettanto chiaro, senza possibilità di smentita, è il seguito, in base al quale “queste regole, oggi, non ci sono”, essendoci alla Camera “una legge fortemente maggioritaria” e al Senato “una legge del tutto proporzionale”, a voler tacere dei numerosi e non piccoli problemi tecnici di applicazione di norme “ritagliate” dalla Corte costituzionale.

Può colpire l’assenza di riferimenti al prossimo (e ancora incerto nei contenuti) intervento della stessa consulta sull’Italicum: questo però si giustifica pienamente, sia con la precedente esperienza di Mattarella come giudice costituzionale (per cui la mancata citazione potrebbe essere frutto di una scelta di garbo istituzionale), sia con il riferimento molto più pregnante alla “esigenza di approvare una nuova legislazione elettorale […] sottolineata, durante le consultazioni, da tutti i partiti e i movimenti presenti in Parlamento”. Una necessità e una volontà, dunque, che va ben oltre il ruolo di “giudice a chiamata” della Corte.

Se, per Mattarella, “con regole contrastanti tra loro chiamare subito gli elettori al voto sarebbe stato, in realtà, poco rispettoso nei loro confronti e contrario all’interesse del Paese. Con alto rischio di ingovernabilità”, non stupisce che lui stesso abbia poco prima sottolineato che “chiamare gli elettori al voto anticipato è una scelta molto seria”, benché le elezioni “in alcuni momenti particolari” (specie quelli di blocco, in cui il Parlamento – con le batterie scariche – una maggioranza non riesce più a esprimerla) restino “la strada maestra”. E per permettere al Parlamento approvare nuove regole elettorali c’era bisogno – e in fretta – di un nuovo governo (stante l’indisponibilità del Presidente dimissionario a continuare il lavoro) che – pur senza proporre esso stesso nuove norme per il voto – continuasse l’opera di “gestione del Paese”, nel tentativo di “governare problemi di grande importanza che l’Italia ha davanti a sé”.

Non c’è solo la legge elettorale, dunque, ma certamente la legge elettorale è per Mattarella il punto più importante dell’agenda parlamentare dei prossimi mesi. Nessuna indicazione, ovviamente, da lui è venuta su come dovranno essere le nuove regole; la decisione sarà rimessa interamente alle Camere. Al netto di considerazioni sulla formula elettorale (che saranno rinviate ai prossimi giorni, in un altro articolo), chi scrive condivide in pieno la scelta di non dare la parola ai cittadini con regole di incerta applicabilità (al Senato) e dagli effetti complessivi non prevedibili sul sistema della rappresentanza. Votare al più presto poteva essere un gioco interessante, almeno per chi ha la passione irriducibile dei numeri e dei voti che contano; non votare ora, invece, è stata una scelta saggia, che il presidente Mattarella si è assunto nel pieno rispetto della Costituzione (che ritiene lo scioglmento una prerogativa del Capo dello Stato) e ha giustamente ricordato nelle sue ultime parole per il 2016 agli italiani.

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Verso le elezioni anticipate?

di Alessandro Gigliotti

Lo scorso anno, nel consueto editoriale natalizio, Ballot poneva il 2016 come anno centrale della legislatura e della vita istituzionale del nostro Paese. Non era una previsione infondata: l’anno appena trascorso ha rappresentato per davvero uno snodo decisivo. È stato l’anno della riforma costituzionale, dapprima approvata dal Parlamento, in seguito respinta dal voto popolare lo scorso 4 dicembre. Ne sono conseguite le dimissioni del Governo presieduto da Matteo Renzi e la formazione, tuttora in corso, di un nuovo esecutivo guidato da Paolo Gentiloni.

È così caduto nel vuoto il progetto riformatore dell’ex sindaco di Firenze, che vi aveva puntato fortemente come dimostrano i dibattiti parlamentari, la recente campagna referendaria e, del resto, l’approvazione di una nuova legge elettorale per la Camera modellata sul nuovo assetto (l’Italicum). Proprio la politicizzazione eccessiva del percorso riformatore ha reso – politicamente – non differibili le dimissioni del Premier, salvo i pochi giorni necessari all’approvazione definitiva della manovra di bilancio, dimissioni che peraltro rendono molto vicine le elezioni anticipate.

Per il vero, buona parte delle forze politiche erano dell’idea che il responso popolare, avendo bocciato l’indirizzo politico del governo in carica più che la riforma costituzionale, richiedesse la conclusione anticipata della legislatura, in modo da dare al popolo stesso la possibilità di legittimare una nuova maggioranza ed un nuovo programma di governo, dopo due governi del Presidente – Monti e Letta – e un terzo governo che, sebbene politico, era anch’esso privo della legittimazione popolare diretta.

Tuttavia, è apparso subito evidente che le elezioni immediate – dove per immediate si intende a febbraio – non erano una strada praticabile, quanto meno per due ragioni di carattere istituzionale. In primo luogo, l’esito referendario conferma l’attuale ruolo del Senato quale camera politica, giuridicamente parificata alla Camera dei deputati, il che richiede due sistemi elettorali tendenzialmente omogenei e coordinati. Tuttavia, se per la Camera è in vigore una legge elettorale iper-maggioritaria con premio di maggioranza e doppio turno, per il Senato resta ferma la legge Calderoli “riveduta” e “corretta” dalla Corte costituzionale (c.d. Consultellum), proporzionale con coalizioni e soglie di sbarramento differenziate. Votare con due leggi elettorali così disomogenee sarebbe una follia: troppo elevato il rischio di ritrovarsi un Parlamento quanto mai ingovernabile. In secondo luogo, la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi nelle prossime settimane su alcuni ricorsi contro l’Italicum, ed è pertanto evidente che non si possono indire le elezioni con il rischio di ritrovarsi una legge elettorale dichiarata illegittima a quindici giorni dalle elezioni (con le candidature già depositate!).

Sono queste le ragioni che hanno spinto il Presidente Mattarella a tentare di costituire un governo che possa accompagnare il Paese in questa fase delicata. Un governo, quello presieduto da Gentiloni, che appare simile in tutto e per tutto a quello uscente – forse anche troppo, secondo alcuni – ma che non avrà un ruolo decisivo nella partita sulla riforma elettorale, come denota il fatto che nessun ministro ha ricevuto una delega in tal senso.

Resta forte la tentazione, ad ogni modo, di anticipare le elezioni politiche alla primavera del 2017. Ad oggi, non è facile fare previsioni, ma la finestra di maggio-giugno è da considerarsi un’ipotesi concreta, mentre è da escludere che si possa andare al voto in autunno, in piena sessione di bilancio, tanto più che non avrebbe molto senso anticipare il voto di pochissimi mesi rispetto alla scadenza naturale di marzo 2018. Il 2017, in ogni caso, sarà un anno di elezioni: si voterà in Francia, per le presidenziali e per le legislative, nonché in Germania. Due tornate decisive non soltanto per i rispettivi Paesi, ma anche per le sorti dell’Europa.

Per quanto concerne il nostro Paese, che si voti nel 2017 o nel 2018, la prospettiva non appare rosea. La crescita economica è limitata, i dati sul lavoro sono altalenanti, le riforme istituzionali – necessarie, occorre ribadirlo, soprattutto quella del bicameralismo – sono rimaste al palo. La società partitica appare sempre più frammentata e priva della coesione necessaria per affrontare, senza eccessive divisioni, i grandi problemi della nostra epoca.

Che sia un Natale di pace e di serenità per tutti voi. E che il nuovo anno sia di crescita, per ciascuno di noi e per il nostro Paese.

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Speciale Referendum costituzionale 2016

scheda-4-dicembreIl referendum popolare sulla riforma costituzionale del Governo Renzi è ormai alle porte. La campagna referendaria è stata lunga, combattuta, ricca di tensioni, vissuta da ambo le parti come un confronto che va ben al di là del merito delle innovazioni in essa contenute e, piuttosto, come uno scontro tra due modi antitetici di vedere la politica e le istituzioni.

Ballot, come sempre, non prende posizione e si limita a rilevare che il dibattito è stato spesso incentrato su questioni che con la riforma hanno poca – se non addirittura nessuna – attinenza. D’altra parte, tutto l’iter di approvazione è stato caratterizzato da un tasso di conflittualità elevato; la riforma è stata politicizzata sin dal principio, forse anche troppo, e le divisioni che si registrano in queste settimane ne sono una chiara manifestazione.

Tuttavia, ciò su cui siamo chiamati a votare domenica non è né il Governo in carica, né un progetto politico più o meno alternativo: si voterà sulla riforma della Costituzione.

Per tale ragione, nel tentativo di riportare l’attenzione sui veri temi oggetto della consultazione, Ballot propone ai suoi lettori una piccola scheda, breve e sintetica, che riassume le principali innovazioni contenute nel testo di riforma con l’obiettivo di contribuire all’informazione, senza la quale non è possibile maturare un’opinione ed esprimere un voto libero e consapevole.

A tutti voi, buona lettura e buon voto.

 

Dal bicameralismo perfetto a quello differenziato

di Vincenzo Iacovissi

La legge di revisione costituzionale interviene sulla struttura del Parlamento italiano, modificando ruolo e funzioni delle sue articolazioni, Camera e Senato, passando da un assetto di tipo bicamerale perfetto ad uno differenziato.

In particolare, la riforma supera la situazione attuale, che vede entrambi i rami sullo stesso piano sia dal punto di vista dell’esercizio della funzione legislativa, sia su quello dell’indirizzo e controllo nei riguardi del Governo, nonché sul complesso delle competenze (conoscitive, ispettive, consultive) che la Costituzione assegna all’organo Parlamento.

Nel disegno riformatore, pertanto, viene previsto un ramo, la Camera dei deputati, titolare esclusivo del rapporto fiduciario con il Governo e soggetto prevalente di legislazione, cui si affianca l’altro ramo, il Senato della Repubblica, che diviene sede di rappresentanza delle istituzioni territoriali e al quale competono la compartecipazione alla funzione legislativa con diversi gradi di intervento rispetto alla Camera, funzioni di raccordo tra le istituzioni statali, locali ed europee, nonché un ruolo referente rispetto alle nomine di competenza del Governo.

Questa diversa articolazione delle attribuzioni si accompagna ad una differente modalità di elezione tra Camera e Senato: per la prima viene confermato il suffragio diretto da parte dei cittadini, mentre per il secondo, composto da 95 membri, si prevede una procedura di elezione di secondo grado da parte dei Consigli regionali. Fanno quindi parte del nuovo Senato 74 consiglieri regionali, 21 sindaci (uno per regione e provincia autonoma), oltre a 5 membri che potranno essere scelti dal Presidente della Repubblica tra personalità eminenti in campo sociale, scientifico, artistico e letterario. L’elezione c.d. “indiretta” da parte dei Consigli regionali dovrà però risultare conforme alla volontà espressa dal corpo elettorale al momento del rinnovo delle rispettive assemblee regionali, e di conseguenza la scelta dei consiglieri chiamati a ricoprire anche la carica di senatore sarà in qualche modo collegata alla volontà popolare. La durata in carica dei senatori è parametrata su quella dei Consigli regionali, mentre per i membri di nomina presidenziale il mandato è di sette anni e non rinnovabile.

Sulla base di tale nuovo assetto, il procedimento legislativo non sarà più caratterizzato dal principio della “parità” tra le due Camere circa l’approvazione delle leggi, bensì su quello della “prevalenza” della Camera rispetto al Senato, con possibilità per Palazzo Madama di esercitare un potere di richiamo nei confronti delle proposte di legge trasmesse da Montecitorio, che potrà essere comunque superato dalla Camera stessa nella maggior parte delle materie. Resteranno sottoposte ad una procedura “bicamerale” solo alcune leggi, quelle costituzionali, quelle relative alle minoranze linguistiche, quelle di carattere ordinamentale e regionale, oltre, infine, alle norme relative alla partecipazione dell’Italia alla formazione ed attuazione delle politiche dell’Unione europea.

In sintesi, da due Camere speculari si passa ad un sistema basato su una Camera di rappresentanza politica e nazionale, che accorda e revoca la fiducia al Governo e legifera in via principale, e un Senato di rappresentanza istituzionale e territoriale, che compartecipa alla funzione legislativa ed è estraneo al circuito fiduciario.

Un bicameralismo, appunto, “differenziato”.

 

Senato, nuove modalità di elezione 

di Gabriele Maestri

Una delle innovazioni più note che la riforma costituzionale si propone di introdurre è la trasformazione del Senato in un organo non più direttamente elettivo, per lo meno non nelle forme in cui lo si è conosciuto finora in Italia.

Il testo uscito dall’iter parlamentare ha delineato il Senato come organo che «rappresenta le istituzioni territoriali» (art. 55, comma 5): per questo, il legislatore ha voluto che a eleggere i senatori fossero «i Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano» (art. 57, comma 2). Ciò varrebbe tanto per i 21 sindaci che Regioni e Province autonome sarebbero chiamate a eleggere (uno per ciascuna), quanto per i 74 membri da individuare tra i componenti d’ogni consiglio (regionale o di Provincia autonoma), in proporzione alla popolazione di ciascun territorio. Il testo garantisce rappresentanza pure agli enti meno popolosi: stando all’ultimo censimento, si andrebbe dai 2 senatori (un consigliere e un sindaco) delle Province di Trento e Bolzano e delle 8 Regioni più piccole, fino ai 14 della Lombardia (13 consiglieri e un sindaco).

La riforma prevede poi che il Senato non sia più eletto in un’unica soluzione, ma di fatto subisca un rinnovo parziale progressivo. Le norme proposte, infatti, fanno coincidere la durata del mandato dei senatori «con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti» (art. 57, comma 6): i consiglieri regionali/provinciali e i sindaci eletti da ciascuna Regione, dunque, terminerebbero il loro mandato da senatori con lo scioglimento del consiglio, anticipato o per scadenza naturale (ma i consigli dovrebbero anche sostituire i consiglieri e i sindaci eletti senatori, ma il cui mandato scade prima dello scioglimento del consiglio regionale/provinciale).

La futura disciplina elettorale del Senato dovrebbe essere dettata con legge “bicamerale”, pertanto sottoposta all’esame paritario di entrambi i rami del Parlamento. Proprio quella legge avrebbe il compito più delicato: tradurre in concreto la previsione inserita durante il percorso parlamentare della riforma, in base alla quale i senatori verrebbero eletti dai Consigli regionali o di Provincia autonoma «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi» (art. 57, comma 6), precisando peraltro che «I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio» (art. 57, comma 7). La disposizione era stata inserita in uno dei passaggi parlamentari per cercare – a dispetto dell’elezione di secondo grado – di dare un pur minimo valore alla volontà degli elettori.

La formula, frutto di un compromesso, è sufficientemente indeterminata e consente l’adozione di varie soluzioni di diversa natura: i consiglieri regionali potrebbero semplicemente votare i nomi dei senatori, dovendo rispettare solo le proporzioni tra i vari gruppi; in Senato potrebbero andare i consiglieri più votati (in proporzione alla consistenza dei gruppi consiliari); le liste potrebbero far stampare sulla scheda l’elenco dei loro candidati al Senato (un listino “bloccato e a scorrimento”), in modo che questi diventino senatori nell’ordine predeterminato, a patto che riescano a farsi eleggere in Consiglio. Da mesi sul tavolo c’è una proposta, a prima firma dei senatori Pd Vannino Chiti e Federico Fornaro, in base alla quale il giorno delle elezioni regionali si voterebbe, su due schede diverse, tanto per il presidente e il consiglio regionali, quanto per il candidato di collegio destinato al Senato, collegato a una lista regionale: prima si determinerebbe il numero di seggi senatoriali spettanti a ciascuna lista, per poi assegnarli ai candidati meglio piazzati di ciascuna lista, un risultato che i Consigli regionali/provinciali dovrebbero recepire senza possibilità di intervenire.

Nessuna di queste proposte, tuttavia, fa parte della riforma su cui si voterà il 4 dicembre: se il nuovo testo sarà confermato, certamente le Camere dovranno regolare quanto prima l’accesso al Senato, anche per capire davvero “che tipo di Senato” opererà sulla scena pubblica e politica.

Tornando al testo della revisione costituzionale, vi si prevede che tanto la legge elettorale della Camera, quanto quella relativa al Senato promuovano l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza; le stesse leggi elettorali possono essere sottoposte, entro dieci giorni dall’approvazione della legge, al giudizio preventivo della Corte costituzionale su iniziativa di almeno un quarto dei deputati o di almeno un terzo dei senatori.

 

Il nuovo procedimento legislativo

di Alessandro Gigliotti

Dal superamento del bicameralismo paritario, vero fulcro del disegno di legge di riforma costituzionale, scaturiscono diverse conseguenze: in primis, un nuovo procedimento per la formazione delle leggi.

Occorre premettere, a tal proposito, che la riforma del bicameralismo risponde all’esigenza di svincolare il Governo dal rapporto fiduciario con il Senato, in modo da superare il regime della doppia fiducia che rappresenta un unicum nel panorama costituzionalistico mondiale. Dal momento, però, che il Senato non sarà più una camera politica, strettamente intesa, e che il suo rinnovo non sarà più concomitante con la Camera, ma legato a quello dei Consigli regionali, ne consegue che la maggioranza presso l’Assemblea di Palazzo Madama potrebbe non essere coincidente con quella che, a Montecitorio, sostiene il Governo. Il procedimento legislativo paritario, così come lo conosciamo oggi, non sarebbe pertanto adatto al nuovo modello, salvo per alcune materie, in quanto il potere di blocco in capo al Senato risulterebbe certamente eccessivo.

Il nuovo art. 70 stabilisce, infatti, che il procedimento bicamerale paritario, per il quale le due Camere devono approvare un testo di legge nella medesima formulazione, si applica esclusivamente ad alcune tipologie di leggi espressamente elencate: si tratta, nel dettaglio, delle leggi costituzionali, delle leggi di attuazione di disposizioni in materia di minoranze linguistiche, in materia di referendum, di ordinamento degli enti locali, di ineleggibilità e incompatibilità con la carica di senatore, di autorizzazione alla ratifica di Trattati Ue, di definizione delle forme e dei termini della partecipazione dell’Italia alla formazione ed all’attuazione delle norme europee, di sistema per l’elezione del Senato. Sono bicamerali paritarie anche la legge contenente i principi per l’elezione del Consigli regionali ed altre leggi attinenti all’autonomia regionale.

Tutte le altre leggi, invece, vengono approvate dalla Camera dei deputati con il concorso del Senato, nelle modalità dettate dallo stesso art. 70. In particolare, l’iter parte alla Camera, dove il testo di legge viene esaminato seguendo il consueto procedimento (commissione-aula); una volta approvato, il disegno di legge è trasmesso al Senato, che può decidere di esaminarlo entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei propri componenti, ed ha poi trenta giorni di tempo per proporre modifiche, su cui poi la Camera si pronuncia in via definitiva. Quindi, il procedimento prevede tre distinti passaggi, dei quali uno assume carattere necessario e gli altri due meramente eventuale. Per tale ragione lo si può definire procedimento bicamerale asimmetrico.

Per alcune tipologie di leggi, peraltro, il procedimento reca alcune sensibili variazioni: nel caso delle leggi di bilancio, il Senato è tenuto ad esaminare il disegno di legge trasmesso dalla Camera e può proporre emendamenti entro 15 giorni dalla trasmissione. Nel caso, invece, delle leggi statali in materie di competenza regionale, in applicazione della cosiddetta clausola di supremazia, il Senato è tenuto ad esaminare il testo entro 10 giorni e gli emendamenti proposti con la maggioranza assoluta possono essere superati dalla Camera solo con una deliberazione finale adottata con la medesima maggioranza.

Da evidenziare, peraltro, che l’art. 72 introduce un nuovo istituto, definito “voto a data certa”, in base al quale il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di iscrivere un disegno di legge con priorità all’ordine del giorno, in quanto essenziale per l’attuazione del programma di governo. Qualora la Camera lo disponga, il disegno di legge deve essere posto in votazione finale entro 70 giorni dalla data della deliberazione di priorità, prorogabili per un massimo di ulteriori di 15 giorni. Si tratta di un istituto che permette al Governo di avere una efficace via preferenziale per i disegni di legge maggiormente significativi senza dover ricorrere alla decretazione d’urgenza, secondo una prassi ormai più che consolidata (ancorché poco conforme allo spirito, se non addirittura alla lettera, dell’art. 77). Si consideri, infine, che il nuovo testo pone vincoli più stringenti per l’adozione dei decreti legge, costituzionalizzando i limiti previsti nella legge n. 400 del 1988 e quelli desumibili dalla giurisprudenza della Corte costituzionale: in particolare, i decreti dovranno recare misure di immediata applicazione, di contenuto specifico ed omogeneo e corrispondente al titolo; nella fase di conversione, non sarà possibile approvare disposizioni estranee all’oggetto ed alle finalità del decreto.

 

Gli istituti di partecipazione popolare, tra ritocchi e novità

di Gabriele Maestri

La riforma costituzionale interviene pure sugli istituti di partecipazione popolare, in particolare su quelli che permettono ai cittadini di presentare in forma collettiva proposte di legge (per proporre alle Camere temi su cui legiferare) o richieste di referendum (per eliminare dall’ordinamento norme non gradite). Si tratta di due strumenti che da tempo mostrano limiti: le proposte di legge popolari si bloccavano ogni volta nella “palude” del Parlamento e gli elettori hanno mostrato sempre maggiore disaffezione verso lo strumento referendario (forse persino abusato), al punto che spesso non si è riusciti a raggiungere il quorum per la sua validità o, a monte, nemmeno a raccogliere le firme necessarie.

Per quanto riguarda l’iniziativa legislativa popolare, la riforma prevede un innalzamento sensibile del numero di firme necessarie (da 50mila a 150mila); il nuovo testo dell’art. 71 Cost., peraltro, prescriverebbe che la discussione e la deliberazione conclusiva su quelle proposte di legge «siano garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari».

L’intervento sulle firme innalza in modo significativo l’asticella, anche se superarla non è impossibile: gli elettori, in settant’anni, sono quasi raddoppiati e oggi ci sono più possibilità per autenticare le firme rispetto al passato. Contropartita del più alto numero di sottoscrizioni sarebbe una discussione (effettiva) nelle aule parlamentari in tempi certi su istanze tradotte in proposta di legge da un numero consistente di cittadini. Si tratta di un rafforzamento della considerazione di questo istituto, reso tuttavia “spuntato” dalla scelta del legislatore di non dettare qualche regola più precisa per l’istituto: la disciplina di tempi, forme e limiti della discussione è stata interamente delegata ai regolamenti parlamentari, dunque alle stesse Camere che finora non hanno tenuto conto delle istanze popolari.

Quanto ai cambiamenti in tema di referendum, rileva innanzitutto il “nuovo” referendum abrogativo «a geometria variabile» (parole di Pasquale Costanzo). In base al testo modificato dell’art. 75, accanto all’attuale ipotesi “normale” (raccolta di 500mila firme e quorum della metà più uno degli aventi diritto al voto da superare), si avrebbe un percorso “rinforzato” da attivare con la raccolta di almeno 800mila firme da parte dei promotori: in quel caso, la consultazione sarebbe valida se andasse al voto almeno la metà dei votanti alle ultime elezioni della Camera.

Dovrebbero essere dunque i cittadini e i promotori a decidere l’altezza dell’asticella: con l’impegno consueto nella raccolta firme, servirebbe uno sforzo maggiore di partecipazione al referendum (dovendo votare un elettore su due); con un impegno maggiore sulle sottoscrizioni, servirebbe meno sforzo ai seggi. La permanenza della via “tradizionale” al referendum non consente di parlare di “controriforma”; quanto al nuovo percorso, oggettivamente è aggravato nella prima fase, anche se di fatto ristabilisce il rapporto firmatari-elettori delle origini (800mila elettori sono l’1,70% dei 46,9 milioni del 2013; 500mila sottoscrizioni, nel 1948, erano l’1,72% dei 29 milioni di elettori di allora), e in più rende più difficile non raggiungere il quorum (stando ai dati del 2013, invece che 23,5 milioni di votanti, ne basterebbero 17,6).

La riforma non interviene sui referendum territoriali su quelli confermativi di revisione costituzionale; in compenso, all’art. 71 si aggiunge che “al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione». Si tratta di una novità per la nostra Costituzione, di nuove occasioni di partecipazione di tutti i cittadini, come singoli e (ma è presto per capire cosa significhi) membri di «formazioni sociali».

Il nuovo testo permetterebbe di indire referendum propositivi (per suggerire temi di cui Parlamento e Governo dovrebbero occuparsi, senza essere un doppione dell’iniziativa legislativa popolare) e d’indirizzo (per permettere a chi governa di verificare, tra il corpo elettorale, il consenso su posizioni e progetti specifici): si tratterebbe, tuttavia, di strumenti solo consultivi e, per giunta, indisponibili prima di un doppio intervento del Parlamento, prima con legge costituzionale (per definirne meglio il funzionamento), poi con legge bicamerale (per attuare nel dettaglio le regole prima stabilite).

Il nuovo Titolo V

di Alessandro Gigliotti

Altro tema di grande rilievo è la riforma del Titolo V, quello relativo alle autonomie degli enti territoriali minori, già oggetto di una profonda rivisitazione tra il 1999 ed il 2001. In via preliminare, occorre sottolineare che la legge costituzionale sopprime le Province come enti territoriali dotati di autonomia riconosciuta dalla Costituzione, ponendo a conclusione un processo che già da qualche anno è stato indirizzato nel senso di depotenziare tale livello di governo in vista di una sua definitiva cancellazione. L’obiettivo non è soltanto quello di produrre un risparmio nei conti pubblici, ma anche quello di semplificare l’ordinamento degli enti locali. A medesima esigenza, d’altra parte, risponde la soppressione del Cnel, organo di consulenza delle Camere e del Governo in campo economico e sociale il cui apporto alla vita delle istituzioni è stato nel complesso trascurabile.

Dal punto di vista del regionalismo, invece, giova ricordare che, a seguito della ridefinizione delle competenze regionali in materia legislativa operata nel 2001, si è aperto un esteso conflitto tra Stato e Regioni che ha reso necessario un massiccio intervento chiarificatore della Corte costituzionale. Quest’ultima, subissata di ricorsi in via principale, è stata quindi costretta a risolvere i numerosi problemi interpretativi che il nuovo testo aveva prodotto, giungendo quasi a svolgere un’attività “pretoria” sul testo costituzionale.

Sinteticamente, nel testo originario del 1947 l’art. 117 si limitava ad individuare una serie di materie affidate alla potestà legislativa regionale di tipo concorrente, mentre le altre erano di competenza esclusiva dello Stato. A seguito della riforma del 2001, il criterio di riparto è stato rovesciato: la Costituzione elenca ora le materie di potestà legislativa esclusiva statale, quelle di potestà regionale concorrente, precisando infine che le materie non espressamente affidate allo Stato sono di competenza regionale: una competenza apparentemente piena, ma che nella realtà non assume tale carattere tanto da essere definita potestà legislativa residuale.

Con l’evidente obiettivo di ridurre il contenzioso e semplificare il riparto di competenze, la riforma costituzionale in corso trasforma ancora una volta l’art. 117, abolendo tout court la potestà legislativa concorrente e stilando due distinti elenchi: uno per le materie di competenza statale, l’altro per quelle di competenza regionale. Benché si specifichi ancora una volta che le materie non espressamente assegnate allo Stato sono affidate alle Regioni, l’art. 117 introduce – o, per alcuni versi, reintroduce – la cosiddetta clausola di supremazia, in base alla quale lo Stato può legiferare anche nelle materie di competenza regionale, allorché lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero dell’interesse nazionale.

Rispetto al sistema attuale, il nuovo art. 117 riporta allo Stato molte delle materie assegnate alla potestà regionale concorrente, mentre altre vengono trasferite in via esclusiva alle Regioni. Si è così sfruttata l’occasione per centralizzare alcune materie che si prestano ad una disciplina nazionale, come ad esempio il coordinamento della finanza pubblica, la tutela della salute, le politiche sociali, l’istruzione, le politiche attive per il lavoro, il commercio con l’estero, l’energia e le grandi infrastrutture strategiche.

In sostanza, la riforma punta a superare la conflittualità tra i diversi livelli di governo attraverso due diversi strumenti: da un lato, la semplificazione del riparto di competenze, con l’abolizione della potestà legislativa concorrente; dall’altro, attraverso la creazione di una Camera di rappresentanza delle istituzioni regionali, per mezzo della quale le Regioni possono far valere le proprie posizioni nella fase di approvazione delle leggi, disinnescando a monte i potenziali conflitti.

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Le Regioni a Statuto speciale non resteranno fuori dal Senato

di Alessandro Gigliotti

Palazzo dei Normanni, sede dell'Assemblea regionale siciliana

Palermo, Palazzo dei Normanni, sede dell’Assemblea regionale siciliana

A seguito dell’intervento del sen. Calderoli presso l’Aula di Palazzo Madama, il quale ha posto il problema, negli ultimi giorni si discute insistentemente del tema della composizione del futuro Senato e delle disposizioni degli Statuti delle cinque Regioni ad autonomia differenziata che prevedono l’incompatibilità tra la carica di consigliere regionale e quella di membro di una delle due Camere. L’incompatibilità, in dettaglio, è prevista dagli Statuti della Valle D’Aosta (art. 17), del Friuli-Venezia Giulia (art. 15, comma 3), della Sardegna (art. 17, comma 2) e della Sicilia (art. 3, comma 7), mentre per il Trentino-Alto Adige l’art. 28, comma 3, dello Statuto estende l’incompatibilità anche alla carica di consigliere provinciale, in virtù della particolare architettura istituzionale di tale Regione che si articola nelle due Province autonome di Trento e Bolzano. Con l’entrata in vigore della riforma costituzionale, secondo Calderoli, le Regioni in questione non potrebbero eleggere i propri rappresentanti in Senato, se non a seguito di un eventuale adeguamento degli Statuti e con i tempi richiesti dal procedimento di revisione costituzionale.

La presente chiave di lettura, tuttavia, non appare condivisibile per le ragioni che verranno esposte. Com’è noto, gli Statuti speciali derogano alla disciplina generale del Titolo V della Seconda Parte della Costituzione, rivolta alle Regioni «ordinarie», in attuazione dell’art. 116 che prevede per alcune Regioni forme e condizioni particolari di autonomia, dettate dai rispettivi Statuti approvati con legge costituzionale. In deroga all’art. 117, ad esempio, gli Statuti attribuiscono potestà legislativa esclusiva per una serie di materie espressamente elencate, ampliando pertanto i margini di autonomia rispetto a quanto accade per le altre Regioni, alle quali è assegnata invece una potestà concorrente con quella dello Stato.

Le norme statutarie, in tal caso, acquistano la natura di norme speciali, in quanto tali non derogabili da norme successive di pari grado che abbiano portata generale (lex posterior generalis non derogat priori speciali). Ecco perché, in occasione della riforma costituzionale del 2001, fu necessario specificare che, sino all’adeguamento dei rispettivi Statuti, le nuove disposizioni si sarebbero applicate anche alle Regioni ad autonomia differenziata ed alle Province di Trento e Bolzano per le parti in cui si prevedevano forme di autonomie più ampie (art. 10, legge costituzionale n. 3 del 2001). E per le medesime ragioni l’attuale legge di riforma costituzionale (art. 39, comma 13) dispone che le modifiche al Titolo V non si applicano alle Regioni a Statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano se non a seguito della revisione dei rispettivi Statuti, previa intesa con i medesimi enti, dal momento che il grado di autonomia viene sostanzialmente ridotto.

Nel caso dell’incompatibilità tra la carica di consigliere regionale e quella parlamentare, però, le cose sono ben diverse alla luce delle norme coinvolte. Segnatamente, l’art. 122 della Costituzione prevede già oggi detta incompatibilità – e la prevedeva anche il testo originario dello stesso articolo –, la quale trova applicazione generale in tutte le Regioni, ivi incluse quelle ad autonomia differenziata i cui Statuti, come si è visto poc’anzi, si limitano a riprodurre testualmente la norma costituzionale generale. Alla disposizione statutaria, pertanto, non si può attribuire alcun carattere di specialità, proprio perché una norma speciale – per definizione – è tale nella misura in cui pone un’eccezione rispetto ad una generale. Orbene, la novella costituzionale, nel creare una Camera delle Autonomie, non soltanto non contempla più alcuna incompatibilità tra la carica di consigliere regionale e quella di membro del medesimo Senato – e non anche, naturalmente, della Camera dei deputati – ma fissa un principio in base al quale conditio sine qua non per essere eleggibile è proprio quella di essere consigliere regionale in carica (con l’ovvia eccezione dei sindaci). Si noti, a tal proposito, che è prevista espressamente l’automatica decadenza dal seggio senatoriale in caso di perdita dello status di consigliere.

La norma appena descritta, per evidenti ragioni, finisce per prevalere sulle norme statutarie che sanciscono l’incompatibilità tra la carica di consigliere e quella di senatore, in applicazione del criterio cronologico di soluzione delle antinomie – lex posterior derogat priori – e dando luogo, nello specifico, ad una forma di abrogazione implicita. È questa l’unica interpretazione costituzionalmente possibile. Una riforma degli Statuti speciali, pertanto, appare auspicabile per eliminare dubbi interpretativi ma non è indispensabile: d’altra parte, la soppressione dell’incompatibilità non limita in alcun modo l’autonomia delle Regioni speciali.

Si tenga conto, infine, che gli Statuti sono sì competenti a derogare alle norme generali in materia di organizzazione regionale, ma solamente nella misura e nei limiti fissati dalla stessa Costituzione, non oltre. Nel caso della composizione del Senato, invece, è la Costituzione a definire puntualmente la disciplina, sicché le norme statutarie sull’incompatibilità dovrebbero considerarsi recessive anche in ragione del criterio della competenza. Ben diverso sarebbe stato qualora la Costituzione avesse accordato alle Regioni speciali la possibilità di stabilire con norme proprie le modalità di preposizione dei rispettivi senatori. Ma così non è.

In conclusione, i cittadini residenti nelle cinque Regioni a Statuto speciale – nonché i loro amministratori – possono dormire sonni tranquilli: qualora il corpo elettorale dovesse approvare la riforma, essi avranno la loro rappresentanza in Senato, né più né meno delle altre Regioni.

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Referendum e “trivelle”/2: Astensione, alcuni “paletti” giuridici

di Gabriele Maestri
scheda-referendum-trivelleA ogni consultazione referendaria torna puntuale la polemica legata all’astensione: ci si chiede, in particolare, se essa sia legittima e se i politici possano invitare gli elettori a non partecipare al voto. Il referendum per cui si voterà domenica, ovviamente, non fa eccezione. Sul punto, come è noto, si è espresso anche il presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi: “Si deve votare al referendum; certamente nel modo come il cittadino crede opportuno di votare, ma credo si debba partecipare al voto, perché […] significa essere pienamente cittadini”.
Di certo, nella sua dichiarazione in conferenza stampa, Grossi (che non è strettamente un costituzionalista, ma da storico del diritto conosce a fondo il sistema giuridico) ha pesato le parole, dicendo “credo si debba”, non “c’è l’obbligo di partecipare al voto”. Questa riflessione suggerisce l’opportunità di precisare alcune questioni, troppo spesso analizzate in fretta o con superficialità, da chi con il diritto costituzionale ha scarsa oppure occasionale frequentazione.
Punto di partenza dev’essere l’art. 48, comma 2 della Costituzione, in cui si parla del voto come “dovere civico” del cittadino. L’espressione è volutamente elastica: all’inizio si era parlato di “dovere civico e morale”, poi il secondo aggettivo è caduto (un po’ perché il termine aveva implicazioni delicate, un po’ perché si temeva che fosse difficile trasformare un dovere morale in dovere giuridico); Costantino Mortati in Assemblea costituente preferiva parlare di “dovere politico” e forse il testo sarebbe stato più chiaro. Il fatto è che, non essendoci stato completo accordo in Assemblea costituente sull’esigibilità del voto, si voleva lasciare libero il Parlamento di riempire di contenuti l’espressione “dovere civico”, magari con norme apposite contenute nella legge elettorale. Il d.lgs. n. 534/1993 ha abrogato la cd. “fedina elettorale” (che pure valeva solo per le elezioni politiche, non per i referendum), ossia l’inserimento dell’elettore astenutosi e non giustificatosi con il sindaco in un elenco speciale e la conseguenze menzione “non ha votato” nel certificato di buona condotta; con quell’intervento abrogativo, nel nostro ordinamento è sparita ogni forma, sia pure minima, di sanzione per chi sceglie di non votare. Siamo dunque di fronte a un dovere privo di sanzione, esattamente come il dovere di lavorare ex art. 4, comma 2 della Costituzione.
Non è conseguenza del “dovere civico” nemmeno la previsione del quorum sulla partecipazione degli elettori al referendum abrogativo: il motivo, casomai, era il non voler consentire l’abrogazione di una legge con il favore di meno del 25% del corpo elettorale (quota che corrisponderebbe, in ipotesi, alla metà più uno dei votanti, quando questi fossero a loro volta la metà più uno degli aventi diritto). Una situazione diversa, per dire, riguarda il referendum legato alla revisione costituzionale: lì si ritiene sufficiente il “sì” di oltre la metà dei partecipanti al voto, anche se si trattasse di meno del 25% degli elettori, perché alla base c’è un testo approvato da entrambe le Camere almeno con la maggioranza assoluta, con un accordo politico più ampio rispetto alle leggi ordinarie. Il fatto che esista un quorum di questo tipo rende di per sé legittimo il comportamento di chi si astiene dal voto, anche perché ad esso sono legate conseguenze giuridiche diverse rispetto al “no”: se un quesito è respinto dalla maggioranza dei votanti, la legge non è sottoponibile a nuovo referendum per 5 anni; se un quesito non raggiunge il quorum, si possono tranquillamente richiedere nuove consultazioni. Ciò detto, pur essendo legittima (o, comunque, non sanzionata), l’astensione non è in alcun modo incoraggiata dalla Costituzione o dalla legge: nelle tribune referendarie gli spazi sono per il “sì” e per il “no”, non certo per chi invita all’astensione, scegliendo di non scegliere.
A questo proposito, si tira fuori per l’ennesima volta l’articolo 98 del testo unico dell’elezione della Camera – che si applica anche ai referendum, per espressa indicazione della legge n. 352/1970 – che punisce “il pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare” che “abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse”, si adopera a indurre gli elettori all’astensione. Basta una lettura minimamente accorta per capire che la disposizione è evidentemente inapplicabile agli eletti in Parlamento: l’art. 68, comma 1 della Costituzione, per cui “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse […] nell’esercizio delle loro funzioni”, esclude alla radice l’applicabilità della disposizione penale; i comportamenti di altri esponenti politici, non coperti dallo scudo dell’insindacabilità parlamentare, rileverebbero solo qualora questi agissero come pubblici ufficiali o nelle altre vesti sopra ricordate.
Bisogna peraltro riflettere, almeno per un momento, sul fatto che attualmente il capo del Governo non è un parlamentare, per cui secondo qualcuno potrebbe essere chiamato a rispondere delle sue posizioni pro astensione, rivestendo egli il ruolo di pubblico ufficiale; si deve però ricordare anche che il Presidente del Consiglio è un pubblico ufficiale solo “nell’esercizio delle sue funzioni”, nel quale sembra difficile far rientrare anche una qualunque dichiarazione, anche rilasciata a margine di un evento ufficiale. Certo, una sua responsabilità non si può escludere a priori: se, di concerto col ministro dell’interno, il capo del Governo disponesse di allontanare le persone dai seggi per ragioni di sicurezza (dunque abusando di un proprio potere), sarebbe incriminabile; una semplice dichiarazione, a prescindere dalla risonanza che i media le danno e anche qualora la si ritenga (legittimamente) inopportuna o civicamente non virtuosa, non sembra invece costituire reato. Si è di fronte, in ogni caso, a una fattispecie incriminatrice obsoleta, nata in un contesto storico ben preciso e da tempo inapplicata (si discusse a lungo nel 2005 se la condotta dei sacerdoti che nel 2005 invitavano, su indicazione dei loro vescovi, a non votare per i referendum sulla procreazione medicalmente assistita integrasse il reato: il caso era più vicino alla previsione di legge rispetto a quello attuale, ma non risultano notizie di procedimenti penali).
Da ultimo, i quesiti dovrebbero essere valutati per quello che sono, senza chiamare in causa argomenti estranei all’oggetto del voto. Era già accaduto – purtroppo – con i referendum del 2011 sui servizi pubblici locali, veicolati come “referendum sull’acqua pubblica”: quella volta i cittadini dovevano votare “sì” o “no” all’abrogazione di una norma che di fatto rendeva quasi impossibile affidare la gestione di quei servizi (compresi quelli relativi all’acqua) a società interamente pubbliche; la vittoria dei “sì” fu interpretata da alcuni come la richiesta dei cittadini di avere l’acqua sempre e solo pubblica, ma questo ai cittadini non è mai stato chiesto (e lo strumento del referendum non era nemmeno adatto allo scopo). Il quesito sulle concessioni per l’estrazione di idrocarburi è piuttosto complesso (e, nei mesi scorsi, non ha avuto un battage pubblicitario enorme, anche perché a chiederlo non sono stati i cittadini, ma le regioni) e le conseguenze dovrebbero essere valutate a fondo, per scegliere come votare. Semplificare le cose difficili è giusto e comprensibile: è invece ingiusto inserire nelle ragioni del “sì”, del “no” o dell’astensione questioni che non c’entrano nulla col quesito, come l’investimento sulle fonti rinnovabili o il problema dei posti di lavoro che si perderebbero in caso di mancata proroga del permesso di estrarre idrocarburi. Un po’ di buon senso in più, probabilmente, farebbe bene a tutti.
* * *
Per approfondire, si può leggere il contributo di Andrea Morrone E’ legittimo astenersi e invitare a disertare le urne? (Il Riformista, 25 maggio 2005) o, più in breve, l’articolo di Piotr Zygulski Se non votare è lecito, perché indurre all’astensione è reato? (Termometro Politico, 14 aprile 2016)
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Referendum e “trivelle”/1: Ecco su cosa si vota

di Alessandro Gigliotti

Siamo ormai a poche ore dal referendum abrogativo sulle trivelle ed è bene chiarire alcuni aspetti per chi si accinge al voto o per chi, molto più semplicemente, vuole capire meglio di cosa di tratta.

Anzitutto, occorre premettere che il testo unico in materia ambientale (d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152) pone da alcuni anni un divieto generale di effettuare attività di ricerca, di prospezione e di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi sia all’interno del perimetro delle aree marine e costiere, sia nelle zone di mare poste entro dodici miglia dalla costa (art. 6, comma 17). Con l’evidente obiettivo di tutelare ambiente ed ecosistema, in tali aree non è quindi possibile ricercare giacimenti, né tanto meno procedere all’estrazione di gas o di greggio. La legge, tuttavia, fa salve tutte le attività poste in essere dai soggetti cui sia stata accordata una concessione. Più in dettaglio, sino a qualche mese fa, il testo unico stabiliva che il divieto non si estendeva né alle concessioni in essere, le quali potevano peraltro essere prorogate alla loro scadenza, né ai procedimenti concessori che erano stati avviati al momento di entrata in vigore della norma stessa (agosto 2010).

Il quesito predisposto dal comitato promotore interveniva su questo aspetto, mediante l’abrogazione di alcune disposizioni del comma 17 dell’art. 6 che facevano salve, come si è visto, sia le concessioni in essere, con possibilità di proroga, sia i procedimenti concessori già avviati. La disposizione residua faceva salvi esclusivamente i titoli abilitativi già rilasciati, vale a dire le sole concessioni in essere, senza alcun richiamo alla possibilità di proroga.

Sennonché, con la legge di stabilità 2016 la disposizione richiamata è stata modificata ed attualmente l’art. 6, comma 17, recita nel seguente modo: «i titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale». Come si può ben notare, ad oggi entro le dodici miglia sono consentite le attività estrattive dei soggetti che abbiano una concessione in essere, ma a differenza del passato tali concessioni non hanno scadenza e restano operative per tutta la durata di vita utile del giacimento. In teoria, anche all’infinito. A seguito di tale innovazione legislativo, l’Ufficio centrale per il Referendum, istituito presso la Corte di Cassazione, ha però provveduto a «trasferire» il quesito dalle vecchie disposizioni alle nuove, avendo ritenuto che queste ultime non modificassero nella sostanza le precedenti. L’attuale quesito, quello su cui si voterà domenica, è quindi leggermente diverso dall’originale e punta ad abrogare le parole «per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale».

La questione su cui gli italiani sono chiamati a pronunciarsi, pertanto, è molto distante da quello di cui si parla in queste ultime settimane. Non è in gioco la questione delle fonti rinnovabili, né si tratta di scegliere tra queste e le fossili nel contesto della politica energetica nazionale. Segnatamente, in caso di vittoria del «no» la normativa descritta rimane inalterata: permane il divieto di nuove trivellazioni entro le dodici miglia ma sono fatte salve le concessioni in essere per tutta la vita utile del giacimento. Qualora dovessero prevalere i «sì», invece, le attività estrattive dovranno cessare una volta scadute le concessioni, senza alcuna possibilità di proroga, a prescindere dalla quantità di gas o di greggio ancora estraibile. Gli elettori, pertanto, sono chiamati a decidere sulla durata delle concessioni già in essere per le attività estrattive entro le dodici miglia, se cioè queste debbano divenire non più prorogabili alla loro scadenza o se invece debbano restare operative fintanto che sia possibile estrarre petrolio o gas.

Il tema, come si può notare, è estremamente tecnico ed è pertanto difficile prendere una posizione sul merito. Ma si può senz’altro escludere che si tratti di un referendum dagli scarsi effetti pratici. Di per sé, i sostenitori del «sì» fanno giustamente notare che la legge pone da tempo un divieto generale di estrazione di idrocarburi entro le dodici miglia, con finalità di tutela ambientale. Per tale ragione, non potendo revocare le concessioni da un giorno all’altro, sarebbe opportuno consentire le estrazioni sino alla loro scadenza senza però concedere ulteriori proroghe. La ratio del divieto sarebbe altrimenti elusa. Altro argomento in favore del «sì» scaturisce dal fatto che le norme vigenti non pongono una scadenza precisa per le attuali concessioni. Oltre ad essere inopportuna in quanto tale, una concessione ad infinitum sembra entrare in conflitto con l’esigenza di tutela ambientale che è alla base della legge e dello stesso articolo.

D’altro canto, i sostenitori del «no» mettono in evidenza che i rischi ambientali sarebbero tutto sommato limitati, poiché dagli impianti interessati si estrae quasi esclusivamente gas metano e pochissimo petrolio. Inoltre, pur ragionando di idrocarburi che coprono solo il 3% (gas) e l’1% (petrolio) del fabbisogno nazionale, rinunciarci sarebbe sbagliato perché così facendo si finirebbe per aumentare la già forte dipendenza dalle importazioni di fonti energetiche. L’imminente chiusura di molti impianti, le cui concessioni scadono a breve, determinerebbe peraltro la perdita di un consistente numero di posti di lavoro, oltre che delle royalties e delle altre imposte che Stato ed enti locali incamerano.

Se dal punto di vista tecnico è quindi difficile stabilire quale delle due posizioni sia più funzionale al bene del Paese e dei cittadini, dal punto di vista politico la consultazione va ben oltre ed investe non soltanto la questione della migliore politica energetica da perseguire nei prossimi anni, ma anche l’operato del Governo in carica. Da questo punto di vista, la vittoria del «sì» contribuirebbe certamente a rafforzare il fronte dei sostenitori delle fonti rinnovabili e della necessità di superare prontamente le fonti fossili per ridurre l’inquinamento atmosferico mondiale. Dall’altro lato, i comitati per il «no» non mettono in discussione il fatto che le rinnovabili siano il futuro e che non si possa prescindere da investimenti in questo settore, ma sottolineano che gli idrocarburi sono fonti di energia di cui non si può fare a meno se si vuole soddisfare il sempre crescente fabbisogno energetico europeo e mondiale.

Da ultimo, è d’uopo una breve considerazione sulla questione del quorum di validità. Com’è noto, il referendum abrogativo necessita di un quorum pari alla metà più uno degli aventi diritto al voto, soglia che negli ultimi vent’anni è stata raggiunta solamente in occasione della tornata del 2011. Guarda caso, tra i quattro quesiti ce n’era uno riguardante il nucleare. Non occorre precisare che il raggiungimento del quorum è da tempo la vera posta in gioco: ciò per il semplice motivo che mentre i sostenitori del «sì» devono recarsi alle urne per far prevalere la loro posizione, i sostenitori del «no» possono rifugiarsi nell’astensione. Negli ultimi anni, la tendenza è stata questa ed il confronto non si gioca più tra favorevoli e contrari, ma tra favorevoli e astensionisti. Ciò rende la competizione oggettivamente sbilanciata in favore dei sostenitori del «no», i quali traggono indubbio vantaggio dall’astensionismo «fisiologico» che si va a sommare a quello «strategico». Per tale ragione, oltre che per non alimentare il distacco dalla politica che colpisce in modo particolare le nuove generazioni, sarebbe preferibile che la partita si giocasse ad armi pari e che tutti si recassero alle urne per esprimere il proprio voto, sia esso in un senso o nell’altro. Gli inviti all’astensione, provenienti anche da rilevanti attori politici, sono del resto comprensibili poiché la storia più recente insegna che il raggiungimento del quorum determina la vittoria quasi certa del «sì». Vedremo anche stavolta lo stesso copione? Non resta che attendere e, nel frattempo, documentarsi adeguatamente per poter assumere una posizione consapevole, quale che essa sia.

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Quei gradini che il premier dovrebbe salire

di Mazzarino

foto tratta da: fotoeweb.it

Diciamo subito che non esiste alcuna norma scritta che imponga un tale gesto. Ma dopo l’esito del voto sul disegno di legge relativo alle “unioni civili”, che ha visto l’ingresso ufficiale nella maggioranza di governo di un nuovo soggetto, l’Alleanza Liberalpopolare-Autonomie guidata dal senatore Denis Verdini, il premier, Matteo Renzi, dovrebbe recarsi al Quirinale per riferire sulla mutata situazione al Capo dello Stato, Sergio Mattarella.

La votazione fiduciaria connessa all’approvazione del provvedimento, infatti, nello spostare l’attenzione dal merito del testo alla verifica del rapporto di fiducia tra il governo e la propria maggioranza parlamentare, ha l’effetto di produrre conseguenze politiche molto rilevanti, come accaduto in questa occasione.

Segnatamente, il conferimento della fiducia da parte di pressoché tutti i senatori del gruppo “ALA” (18 su 19), comporta un ampliamento della base parlamentare dell’Esecutivo rispetto alla situazione precedente, da cui era scaturita, ormai due anni orsono, la compagine governativa in carica. Detto in altri termini, la coalizione che sostiene il governo Renzi si è modificata rispetto alla formula originaria, ampliandosi verso un altro soggetto sino ad allora all’opposizione.

Pertanto, sarebbe auspicabile che il Presidente del Consiglio investisse della questione il vertice dello Stato, cui la Costituzione assegna il delicato compito di arbitro del sistema politico-istituzionale, nonché poteri di soluzione delle crisi di governo. Nel caso di nostro interesse, pur non trattandosi di una cesura del rapporto fiduciario ai sensi dell’art. 94 cost., e neanche di dimissioni spontanee del governo per crisi extraparlamentare, l’allargamento della maggioranza riveste comunque una significativa importanza per non vedere coinvolto l’inquilino del Quirinale, al fine di consentirgli di apprezzare le circostanze ed assumere le eventuali decisioni.

Cosa potrebbe fare il Capo dello Stato?

Il Presidente della Repubblica, preso atto del mutato scenario, potrebbe rinviare il governo alle Camere per una conferma dell’ampiezza del rapporto fiduciario, oppure reputare l’accaduto non meritevole di un esplicito passaggio formale presso il Parlamento. In entrambi i casi, tuttavia, verrebbe ufficialmente reso edotto della vicenda, dal punto di vista sia formale che sostanziale, facendola rientrare in una precisa cornice istituzionale.

E in tempi di scarsa attenzione per prassi e convenzioni costituzionali, sarebbe già un passo in avanti.

 

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Le unioni civili alla prova del voto

di Alessandro Gigliotti

foto cirinnà (2)

Entra nel vivo in queste ore l’esame parlamentare del disegno di legge sulle unioni civili – meglio noto come ddl Cirinnà, dal nome della relatrice del provvedimento – e sono in corso le ultime trattative per dirimere le questioni maggiormente dibattute. Si tratta infatti di un testo che disciplina temi fortemente divisivi, sia all’interno dell’opinione pubblica sia tra le forze politiche.

In estrema sintesi, il disegno di legge istituisce le unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina le convivenze di fatto. Ma la vera partita si gioca sulle unioni civili ed è prevedibile che in Aula si combatterà una battaglia senza esclusione di colpi. Del resto, l’esame in commissione è stato interrotto bruscamente e pertanto sarà il plenum a farsi carico di risolvere tutti i problemi aperti: segno della forte contrapposizione è la presenza di oltre 6.000 emendamenti, molti dei quali provenienti dal gruppo della Lega Nord. Sono infatti falliti tutti i tentativi sinora avanzati per giungere ad un gentlemen’s agreement che avrebbe consentito di ridurre di molto le proposte emendative e, pertanto, di concentrare i lavori parlamentari su alcune specifiche questioni di merito e non su mere pratiche ostruzionistiche.

Sulla carta, esiste un’ampia maggioranza a favore del disegno di legge, come testimoniano i 195 voti che la scorsa settimana hanno respinto la proposta di non passaggio all’esame degli articoli che, se approvata, avrebbe comportato la reiezione del provvedimento. Ma si tratta di una maggioranza trasversale, che coincide solo in parte con quella che sostiene il governo in carica e che non vede al suo interno, in particolare, il Nuovo Centrodestra di Alfano. Non sono da escludere, quindi, colpi di scena. Anzitutto perché ci sono diversi emendamenti che potrebbero essere votati a scrutinio segreto: a norma dell’art. 113 del regolamento del Senato, il voto segreto può essere richiesto da almeno venti senatori su alcune materie espressamente previste, tra cui il matrimonio e la genitorialità. È quindi verosimile che lo scrutinio segreto venga chiesto per l’art. 5, che estende alle unioni tra persone dello stesso sesso l’istituto dell’adozione del figlio del coniuge (c.d. stepchild adoption), e per tutti gli emendamenti che vi insistono. È proprio la stepchild adoption, peraltro, la parte maggiormente contestata dell’intero disegno di legge, essendo invisa persino tra le file del Partito democratico. Nel segreto dell’urna, la trasversalità delle posizioni, che trascende non soltanto il canonico rapporto maggioranza-opposizione ma neutralizza anche la disciplina di partito, può condurre a risultati imprevedibili alla vigilia.

In secondo luogo, perché tra i primissimi emendamenti da porre in votazione ci sarà il «supercanguro» del sen. Marcucci, un emendamento strutturato in modo da annullare buona parte delle altre 6.000 proposte in campo. Sull’esempio di quanto già accaduto durante i lavori per l’approvazione della legge elettorale, il sen. Marcucci ha predisposto un emendamento premissivo, un emendamento che si vota prima degli altri e che, riassumendo in poche righe tutto il contenuto della legge, qualora approvato determinerebbe la caducazione di buona parte delle proposte successive. Tecnicamente parlando, in realtà, non c’è alcun «canguro» – espressione con cui si allude ad un altro istituto – ma semplicemente l’applicazione del canonico meccanismo della «preclusione», che si genera quando viene approvato un emendamento che ne rende incompatibili altri.

In conclusione, l’esame del disegno di legge rischia di essere lungo, se le pratiche ostruzionistiche dovessero prendere il sopravvento, o molto più celere del previsto, se invece l’approvazione dell’emendamento Marcucci dovesse portare alla preclusione di buona parte delle restanti proposte di modifica. Saprà la maggioranza portare a termine anche questa complessa partita? E quali saranno le ripercussioni nell’ipotesi in cui il voto denoterà profonde spaccature all’interno dei singoli partiti? Non ci resta che attendere.

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