di Gabriele Maestri

Il facsimile di scheda non cambierà
Alla fine il verdetto sulla legge elettorale della Camera è arrivato: tra il tutto e il niente, in fondo si è arrivati a una via di mezzo, un po’ al ribasso. Dei tanti profili di possibile illegittimità costituzionale della legge n. 52/2015 sollevati da cinque tribunali, infatti, la Consulta ne ha ritenuti fondati due, quelli che avevano suscitato l’attenzione di tutti i giudici a quibus. Per leggere il testo della sentenza e riflettere in modo più compiuto e accorto su come la Corte costituzionale abbia deliberato (specie su alcuni punti particolarmente delicati), occorrerà aspettare qualche settimana; nel frattempo, alcune osservazioni è già lecito farle sulla base del comunicato stampa diffuso poche ore fa e che si riporta qui per intero.
Decisione sulla legge elettorale cd. Italicum
Oggi, 25 gennaio 2017, la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale della legge elettorale n. 52 del 2015 (c.d. Italicum), sollevate da cinque diversi Tribunali ordinari.
La Corte ha respinto le eccezioni di inammissibilità proposte dall’Avvocatura generale dello Stato. Ha inoltre ritenuto inammissibile la richiesta delle parti di sollevare di fronte a se stessa la questione sulla costituzionalità del procedimento di formazione della legge elettorale, ed è quindi passata all’esame delle singole questioni sollevate dai giudici.
Nel merito, ha rigettato la questione di costituzionalità relativa alla previsione del premio di maggioranza al primo turno, sollevata dal Tribunale di Genova, e ha invece accolto le questioni, sollevate dai Tribunali di Torino, Perugia, Trieste e Genova, relative al turno di ballottaggio, dichiarando l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che lo prevedono.
Ha inoltre accolto la questione, sollevata dagli stessi Tribunali, relativa alla disposizione che consentiva al capolista eletto in più collegi di scegliere a sua discrezione il proprio collegio d’elezione. A seguito di questa dichiarazione di incostituzionalità, sopravvive comunque, allo stato, il criterio residuale del sorteggio previsto dall’ultimo periodo, non censurato nelle ordinanze di rimessione, dell’art. 85 del d.p.r n. 361 del 1957.
Ha dichiarato inammissibili o non fondate tutte le altre questioni.
All’esito della sentenza, la legge elettorale è suscettibile di immediata applicazione.dal Palazzo della Consulta, 25 gennaio 2017.
La prima considerazione da fare riguarda necessariamente l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sulla legge elettorale. Avevo già detto ieri come non fosse scontato un esame nel merito da parte della Corte, sia per ragioni generali (alto grado di politicità della decisione sulle leggi elettorali, difficoltà nell’individuare nella domanda alla base dei giudizi a quibus un oggetto ulteriore rispetto alla richiesta di sottoporre la questione alla Consulta), sia per profili attinenti direttamente a questa legge elettorale, mai applicata finora e senza che il giudice delle leggi si fosse mai espresso, anche in modo “atipico”, sulla legittimità di alcune parti di essa (a differenza, su entrambi i profili, di quanto era avvenuto con il Porcellum).
Il fatto che la Corte costituzionale abbia in primo luogo “respinto le eccezioni di inammissibilità proposte dall’Avvocatura generale dello Stato” (eccezioni ampiamente prevedibili) fa pensare, fin d’ora, al fatto che sia stata ufficialmente (aperta, se non) spalancata, la via del ricorso al giudice ordinario civile per far dichiarare la lesione del proprio diritto di voto secondo Costituzione, come strumento per far esprimere la Consulta su ogni legge elettorale dettata per il Parlamento. La lettura della sentenza risulterà illuminante da questo punto di vista, ma già ora sembra proprio di poter dire che qualunque legge elettorale politica potrebbe essere sottoposta allo scrutinio della Corte: può essere che il giudice delle leggi abbia deliberatamente scelto di lasciare aperta la strada tracciata con la sentenza n. 1/2014, probabilmente per la difficoltà di sottoporre in altro modo a esame le leggi elettorali (stante anche la mancata entrata in vigore del controllo preventivo che era parte della riforma costituzionale respinta con il referendum).
Il successivo punto del comunicato, in base al quale la Consulta “[h]a inoltre ritenuto inammissibile la richiesta delle parti di sollevare di fronte a se stessa la questione sulla costituzionalità del procedimento di formazione della legge elettorale”, riguarda un’espressa richiesta dei ricorrenti – in particolare, ma non solo, dall’avvocato Enzo Palumbo – che già nei giudizi a quibus avevano provato a sollecitare i giudici a sollevare anche la questione relativa al procedimento legislativo seguito per approvare l’Italicum: in particolare, si lamentava il mancato rispetto della “procedura normale” richiesta per le leggi elettorali dall’art. 72, comma 4 Cost., a causa della mancata approvazione della relazione in commissione al Senato, dell’intervento del “supercanguro” in aula a Palazzo Madama, della mancata approvazione della relazione in commissione alla Camera, con tanto di sostituzione di dieci deputati di maggioranza “dissidenti”, e – soprattutto – dell’approvazione finale a Montecitorio con il voto di fiducia sulla maggior parte del testo del d.d.l.
E’ innegabile che l’argomento abbia almeno in parte un suo interesse: l’apposizione di questioni di fiducia su disposizioni tanto articolate (si pensi ai 38 commi dell’art. 2 della legge n. 52/2015) si presenta davvero problematica, se si ha come fine il rispetto della qualità dei lavori parlamentari. La questione, tuttavia, non ha avuto e non avrà in alcun modo ingresso nelle argomentazioni della Corte: scorrendo le cinque ordinanze di rimessione, si può agevolmente vedere che da tutti i tribunali a quibus quel primo profilo di illegittimità è stato dichiarato manifestamente infondato, cosa che deve avere inevitabilmente spinto la Consulta a dichiarare la richiesta delle parti come inammissibile.
Passando all’esame del merito, va innanzitutto notato che nel comunicato è assente ogni riferimento all’apporto del Tribunale di Messina. La mancanza, assolutamente evidente (quella prima ordinanza aveva sollevato tutti e tre i profili critici di cui dà conto indicato, assieme ad altri non rilevati dagli altri giudici di primo grado e assolutamente non considerati dell’unica comunicazione “ufficiale” proveniente dalla Consulta), francamente è difficile da spiegare. Unico motivo plausibile potrebbe essere – ma per trovare conferma bisognerà necessariamente aspettare il testo della sentenza – un pronunciamento negativo da parte della Corte sulle sole questioni di provenienza messinese per mancanza di rilevanza delle stesse: l’ordinanza di riflessione, infatti, è datata 17 febbraio 2016, un tempo in cui l’Italicum era già entrato in vigore ma non era ancora produttivo di effetti, cosa che può avere permesso al giudice delle leggi di ritenere insussistente il requisito della rilevanza. Anche una scelta di questo tipo lascerebbe almeno in parte perplessi, se non altro perché le norme impugnate erano già vigenti e sarebbero state certamente produttive di effetti al tempo del giudizio della Corte costituzionale; in ogni caso, non sembra ci siano altre ragioni tali da giustificare questa singolare “sparizione”.
Quanto ai singoli profili di eventuale illegittimità, era chiaro che il premio di maggioranza sarebbe stato uno dei punti più delicati da considerare: la Corte ha scelto di salvarlo parzialmente, cambiando peraltro del tutto la sua natura e, allo stesso tempo, quella del sistema elettorale. Come si è visto ieri, soltanto due tribunali (quello di Genova e, prima ancora, quello di Messina) avevano individuato criticità nell’applicazione del premio anche al primo turno, vista la mancata previsione di ogni legame tra voti ricevuti e numero totale degli aventi diritto al voto, cosa che avrebbe rischiato di produrre un’eccessiva distorsione della rappresentanza: il rigetto della questione da parte della Consulta sembra aver fugato del tutto questi dubbi, per cui il 40% è stato ritenuto percentuale sufficientemente solida per l’attribuzione di un premio.
Tutt’altro discorso, ovviamente, è stato fatto con riferimento al ballottaggio tra le due liste più votate al primo turno: un ballottaggio che, all’evidenza, aveva l’unico scopo di assegnare il premio alla più votata delle due liste, a prescindere dall’affluenza degli elettori. Come si è già detto, su questo punto si erano concentrate le critiche di tutti i tribunali ed è proprio il primo punto che il giudice delle leggi ha ritenuto di dover accogliere, “dichiarando l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che […] prevedono” lo stesso ballottaggio, dal momento che non avrebbe avuto alcun senso mantenerlo togliendo solo l’assegnazione del premio. È probabile che sulla decisione abbiano influito soprattutto le censure che lamentavano l’assenza di una soglia minima di voti (assoluti e anche in rapporto agli aventi diritto) per far scattare il premio al secondo turno, con ciò che potevo seguirne in termini di alterazione della rappresentatività e del “peso” dei voti, ma anche la considerazione sul carattere del tutto inedito di un ballottaggio non tra persone, ma tra liste.
La seconda questione affrontata dal comunicato della Corte riguarda le multicandidature, trattata fin qui soltanto – in termini negativi, quanto alla libertà di voto ex art. 48, comma 2 Cost. – in un obiter dictum nella sentenza n. 1/2014: va peraltro detto che i giudici a quibus non avevano contestato tanto la candidatura multipla in sé, istituto comunque non privo di criticità ma censurato esclusivamente dal Tribunale di Messina (peraltro solo con riferimento agli eletti delle minoranze), quanto piuttosto il meccanismo dell’opzione, che lasciava completamente al multicandidato eletto più volte la scelta del collegio di elezione, senza che l’elettore potesse minimamente prevedere quale spazio concreto avrebbero avuto i candidati che avevano raccolto più preferenze.
Se si scorre di nuovo il contenuto della sentenza n. 1/2014, si può trovare probabilmente la chiave di lettura corretta della decisione della Corte: da una parte, il giudice delle leggi non si era espresso negativamente su “sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi”, come di fatto si presentava l’Italicum (dunque non si poteva attaccare direttamente il capolista bloccato) né sulle candidature multiple in sé (ne aveva parlato solo all’interno delle liste lunghe e bloccate); era invece stato intransigente nel bocciare congegni i meccanismi che “coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento”, scenario inevitabile nel momento in cui chi vota ha pressoché la certezza che la scelta sul collegio di opzione e, dunque, su quale fosse il candidato “da sacrificare” sarebbe stata fatta dal partito.
Non stupisce allora che la Consulta abbia ritenuto illegittima la disposizione che “consentiva al capolista eletto in più collegi di scegliere a sua discrezione il proprio collegio d’elezione”. Più singolare forse, per decidere comunque quel collegio, è l’impiego del criterio residuale del sorteggio (sempre compreso nell’art. 85 del t.u. per l’elezione della Camera, così come modificato dall’Italicum: le ordinanze di rimessione avevano impugnato l’intero articolo, ma nella parte motiva nessuna doglianza riguardava l’ultimo periodo della disposizione, non toccato dalla modifica) così da rendere comunque applicabile la legge; resta inteso, peraltro, che al sorteggio non si procederà certo dopo 8 giorni dalla proclamazione, ma subito dopo tale operazione.
In questo modo, il sistema elettorale tracciato dalla Corte si presenta come un maggioritario puramente eventuale, disposto a premiare una minoranza molto consistente, ma pronto – qualora nessuna lista superi la “soglia minima di voti” in cui è stato trasformato il 40% originariamente fissato come livello per non far scattare il ballottaggio – a procedere a una distribuzione meramente proporzionale – e nazionale – tra tutte le forze che abbiano superato lo sbarramento del 3%, con l’assegnazione dei seggi innanzitutto ai capilista bloccati (eventualmente applicando il sorteggio in caso di multielezione) e, in seguito, ai candidati più votati in base alla doppia preferenza di genere.
L’accesso alla rappresentanza parlamentare, peraltro, è il profilo che maggiormente distingue l’Italicum “corretto” dal Consultellum seguito alla sentenza n. 1/2014: anche quello disegnato allora, infatti, era un sistema proporzionale, ma aveva lasciato in piedi, tanto alla Camera quanto al Senato, il sistema delle soglie differenziate che trattavano meglio chi aveva stretto un accordo di coalizione (e permettevano anche il ripescaggio, all’interno della stessa coalizione, della lista più votata tra quelle che non erano arrivate al 2%). Ora alla Camera tutto questo è sparito e, anzi, l’accesso a Montecitorio appare più facile e più logico: visto che l’Italicum aveva bandito le coalizioni e questo non è cambiato, alle singole forze sarà richiesto almeno il 3% – e non più il 4% – per avere rappresentanza (ottenendo a questo punto almeno 18 deputati), senza che sia di fatto lasciata ai partiti maggiori la scelta di stringere o meno una coalizione con le forze minori e abbassare loro l’asticella del consenso minimo da ottenere (dal 4% al 2% o, per la best loser, anche meno), com’era accaduto con il Consultellum.
Il problema, tuttavia, resta al Senato e questo mette in luce la criticità rimasta in campo, tutt’altro che secondaria. Non sembra decisiva la questione del Premio, assente a Palazzo Madama (ma, come si è detto, di difficile applicazione anche a Montecitorio), mentre lo è molto di più la questione delle soglie di assegnazione dei seggi: se alla Camera basta il 3% per entrare, al Senato – la cui normativa elettorale prevede ancora la possibilità di stringere coalizioni – a livello regionale le liste singole dovrebbero ottenere almeno l’8%, mentre quelle coalizzate potrebbero fermarsi al 3% (a patto che la coalizione raggiunga il 20%). Sembra assolutamente necessario intervenire almeno su queste differenze irragionevoli, magari uniformando i due sistemi eliminando a Palazzo Madama le coalizioni e le soglie diverse dal 3%, anche per togliere potere di ricatto ai partiti maggiori; già che ci si è, sarebbe opportuno introdurre anche al Senato la doppia preferenza di genere, visto che sarebbe poco comprensibile la sua mancata adozione a fronte della sua presenza alla Camera, alle elezioni del Parlamento Europeo e dei consigli comunali sopra i 5mila abitanti, nonché in gran parte delle leggi elettorali regionali (non in tutte, purtroppo).