Propagandare per sondaggio. La campagna elettorale ai tempi della crisi

di Vincenzo Iacovissi

La legge 28/2000, nota come par condicio, stabilisce all’art. 8 il divieto di rendere pubblici o diffondere sondaggi sugli orientamenti di voto a partire dai quindici giorni precedenti la data delle elezioni. Per le consultazioni politiche del 24-25 febbraio, il divieto scatterà dalla mezzanotte di sabato 10 febbraio prossimo, e la circostanza ci induce ad alcune preliminari valutazioni sull’andamento della campagna elettorale prima e dopo tale data.

Dalla convocazione dei comizi elettorali (22 dicembre dell’anno scorso), passando per la presentazione di contrassegni e liste – tutte tappe analizzate dalla colonne di Ballot – sino ad oggi abbiamo assistito ad un dibattito elettorale dai contorni anomali, con forti elementi di singolarità.

In primo luogo, anomala è la collocazione temporale delle elezioni, che nella storia della Repubblica non hanno mai avuto luogo nel cuore dei mesi invernali, con tutte le difficoltà pratiche e logistiche che stanno incontrando non solo gli “addetti ai lavori” ma anche i cittadini, penalizzati dalla carenza di luoghi fisici di incontro con i candidati.

La seconda peculiarità è ormai una costante: il diffuso e crescente sentimento “anti” che si annida in numerosi strati della popolazione, tipico di ogni fase recessiva e che si salda con un buio periodo nei comportamenti di taluni esponenti del ceto politico ad ogni livello.

La terza, tragica, caratteristica è il reiterarsi del porcellum, discutibile meccanismo elettorale che –oltre alle tante aporie già evidenziate in questa sede – contribuisce a mortificare il dibattito, oscurando totalmente il valore dei singoli candidati al Parlamento per effetto delle lunghe liste bloccate, ponendo in rilievo esclusivamente il profilo dei leader dei principali schieramenti in campo.

In questo scenario, dove poco o nulla conta l’attività di promozione del messaggio politico a livello territoriale, si assiste così ad un eterno talk show in cui si confrontano 5 o 6 personalità nazionali alla conquista del consenso elettorale. Mai come in questo appuntamento, infatti, i mass media (quelli tradizionali, come la tv in primis, ma anche quelli digitali, social network in testa) giocheranno un ruolo cruciale per determinare l’articolazione del consenso e, quindi, il risultato finale. Ne è conferma il fatto che, almeno sino ad oggi, l’interesse di pressoché tutti i soggetti coinvolti (comunicazione, candidati, elettori) sia appuntato sulle rilevazioni demoscopiche, divenute il mantra di ogni trasmissione e discussione, con minore attenzione riservata al merito delle diverse proposte programmatiche.

Il sondaggio elettorale nasce in Italia sul finire degli anni Settanta e si diffonde nel decennio successivo parallelamente alla crisi dei partiti, per poi imporsi negli anni della c.d. “seconda Repubblica”. Accade così che la rilevazione sondaggistica entri di diritto nell’ambito degli strumenti del marketing elettorale che partiti e movimenti pongono in essere nel loro rapporto con la pubblica opinione, passando da strumento di monitoraggio a mezzo per orientare le scelte degli elettori. Il corollario è il c.d. “governo per sondaggio”, ossia la predisposizione di misure sulla base del loro presunto gradimento da parte dei cittadini, in una spirale poco consona ai canoni di una moderna democrazia.

A ciò si aggiunga la particolare rilevanza delle indagini sulle intenzioni di voto nei periodi più prossimi ad una consultazione, che, lungi dal limitarsi a fotografare l’esistente, sovente esercitano un particolare fascino, tanto da poter dar luogo al c.d. “bandwagon effect”, ossia “effetto trascinamento”, che si innesta nell’opinione pubblica a seguito della diffusione di rilevazioni e sondaggi riferiti agli schieramenti in campo.

In effetti, appare poco dubitabile come la semplice presentazione di risultati in materia politico-elettorale abbia effetti sul comportamento degli elettori, con intuibili conseguenze sul piano del rapporto fra il diritto di informazione e la libertà del voto, entrambi garantiti dalla Costituzione.

In particolare, la tendenza in atto sembra configurare la volontà di “propagandare per sondaggio”, ponendo in primo piano le fluttuanti intenzioni di voto rispetto alle proposte di programma. Letta in questo modo, la valenza manipolativa del sondaggio assume un rilievo potenziale molto significativo.

Ecco perché, a nostro giudizio, arriva salutare lo stop alla divulgazione dei sondaggi, in grado, auspicabilmente, di riportare all’attenzione dei cittadini chiamati alle urne i temi e le ricette più utili al Paese, secondo quel “conoscere per deliberare” troppo caro al buon funzionamento delle elezioni per essere sacrificato sull’altare della sola effimera emozionalità. A maggior ragione in tempo di crisi.

Tuttavia, non si può sottacere il carattere scarsamente efficace delle norme in vigore, in quanto relative ad un periodo di tempo estremamente breve (15 gg.), per scongiurare gli effetti di condizionamento sull’elettorato che ci si prefigge di evitare.

In prospettiva futura, sarebbe, quindi, più opportuno un collegamento del divieto con l’inizio della campagna elettorale, ossia dal momento della divulgazione delle liste ammesse a partecipare alla competizione (30 gg. antecedenti al voto), in modo da poter assicurare le condizioni di libertà di cui all’art. 48 della Costituzione.

L’estensione dell’ambito temporale del divieto risponderebbe, altresì, ad una logica che, nel contemperare i diversi principi costituzionali coinvolti dal tema in parola – sovranità popolare (art. 1), uguaglianza di chances (art. 3), libertà di informazione e di essere informati (art. 21), segretezza, libertà e personalità del voto (art. 48) – reputi come preferenziale la formazione dell’opinione dell’elettore in un contesto di pari opportunità fra tutti i partecipanti alla contesa.

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