di Alessandro Gigliotti
Sono ormai prossime le elezioni per la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, programmate per il 24-25 febbraio, e trova quindi applicazione l’art. 8 della legge n. 28 del 2000 (c.d. par condicio), che vieta la pubblicazione/diffusione di sondaggi elettorali nei 15 giorni antecedenti la data delle votazioni. Sono state però numerose ed interessanti le indagini demoscopiche realizzate nelle scorse settimane dai vari istituti di ricerca e pubblicate sino all’8 febbraio, ultima data utile prima del silenzio imposto dalla legge. Le rilevazioni statistiche (che tutti possono consultare sul sito istituzionale www.sondaggipoliticoelettorali.it, curato dalla Presidenza del Consiglio) sono state pressoché concordi nell’evidenziare il vantaggio che la coalizione di centro-sinistra, guidata da Pierluigi Bersani, aveva in quel momento nei confronti delle forze politiche antagoniste; purtuttavia, la vittoria del rassemblement tra Pd e Sel era condizionata dall’esito – sempre più incerto – riguardante l’assemblea di Palazzo Madama.
L’ordinamento italiano, infatti, presenta l’indubbia peculiarità istituzionale di essere caratterizzato da un bicameralismo perfetto, vale a dire da un’assoluta parificazione giuridica tra le due assemblee, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica. Il bicameralismo perfetto (o paritario) lo si riscontra – in realtà – anche altrove, ma solamente in ordinamenti che presentano una forma di governo presidenziale (ad esempio, gli Stati Uniti d’America) o una struttura federale (la Svizzera e gli stessi USA), giammai nel caso di forme di governo di tipo parlamentare. Questo modello istituzionale, com’è noto, si contraddistingue per il rapporto fiduciario intercorrente tra il Governo e il Parlamento, rapporto fiduciario che impone un’omogeneità politica tra i due organi. La peculiarità del nostro Paese, però, consiste nel meccanismo della doppia fiducia: il Governo è responsabile politicamente sia di fronte alla Camera dei deputati, sia di fronte al Senato, da cui ne consegue che le due camere devono avere una composizione politicamente omogenea. E qui sorgono i problemi.
Le leggi elettorali per i due rami del Parlamento, contrariamente a quanto impone la logica, sono ben lungi dall’essere omogenee. Esse sono improntate ad un logica proporzionalistica, temperata da soglie di sbarramento e dal premio di maggioranza; tuttavia, mentre alla Camera le soglie e il premio sono applicate su base nazionale, al Senato esse sono previste a livello circoscrizionale, regione per regione, giacché il Senato deve essere eletto su base regionale (art. 57 Cost.). In particolare, la forza politica più votata a livello nazionale, sia essa una lista o una coalizione, consegue 340 seggi alla Camera dei deputati su un totale di 630, sufficienti ad assicurare la maggioranza assoluta. Al Senato, invece, il premio (pari al 55 per cento del totale) viene assegnato alla lista o coalizione più votata in ciascuna delle 17 regioni (sono escluse dal computo Valle d’Aosta, Molise e Trentino-Alto Adige) e ciò comporta che il gioco incrociato dei premi possa impedire la formazione di una maggioranza. Sui 299 seggi assegnati nelle 17 regioni indicate, una coalizione «maggioritaria» in tutte e 17 conseguirebbe almeno 171 seggi, ai quali naturalmente se ne potrebbero aggiungere altri derivanti dalle tre regioni residue e dalla circoscrizione estero (in cui si eleggono 6 senatori). Se, tuttavia, una coalizione fosse «maggioritaria» in tutte le regioni meno una, i numeri cambierebbero, come nel caso in cui essa prevalesse solo in 15 regioni su 17 e così via. Secondo i dati elaborati dai principali istituti demoscopici – aggiornati, come detto, a qualche settimana fa – il centro-sinistra di Bersani conseguirebbe la maggioranza assoluta alla Camera, mentre al Senato tale condizione si potrebbe verificare solamente qualora la coalizione progressista prevalesse in tutte le 17 regioni in cui si assegna il premio o, quantomeno, in 16 di esse. La maggioranza verrebbe meno, invece, qualora il centro-destra riuscisse ad imporsi in alcune regioni, quali ad esempio Veneto e Sicilia – tradizionalmente moderate – se non anche in Lombardia, Campania e Puglia, dove la competizione si profila molto incerta. Si tratta, peraltro, di regioni molto popolose e che, quindi, assegnano molti seggi, sicché la prevalenza dell’una o dell’altra coalizione sposterebbe – in maniera parzialmente analoga, se si vuole, ai grandi elettori nelle elezioni presidenziali degli USA – un numero significativo di seggi da una parte o dall’altra.
Del resto, in occasione delle elezioni del 2006, quando la legge Calderoli fu applicata per la prima volta, l’esito fu di sostanziale pareggio tra le forze in campo: il centro-sinistra conseguì infatti 158 seggi complessivi, a fronte dei 156 seggi del centro-destra e di un indipendente. In quella circostanza, in realtà, il centro-destra riportò su scala nazionale un maggiore numero di voti rispetto al centro-sinistra, ma fu penalizzato dalla ripartizione dei seggi; la coalizione di Berlusconi, segnatamente, prevalse in Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Puglia e Sicilia, mentre quella di Prodi vinse nelle altre dieci. Nel 2008, invece, la vittoria del centro-destra fu di tale portata che permise il conseguimento della maggioranza assoluta non soltanto alla Camera (dove essa è scontata, come si è visto) ma anche al Senato, in cui lo schieramento moderato prevalse in tutte le regioni tranne Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche e Basilicata.
In sostanza, l’impressione generale è che la legge Calderoli, in virtù della «lotteria» dei premi di maggioranza al Senato, abbia una naturale tendenza a creare un’assemblea a Palazzo Madama pressoché priva di maggioranza e, come tale, del tutto ingovernabile, salvo il caso in cui si registri una vittoria netta, come nel 2008. Né, probabilmente, si poteva evitare l’inconveniente attraverso la previsione di un premio assegnato su scala nazionale anche al Senato, come alla Camera: pur prescindendo dalla presunta lesione del principio dell’elezione su base regionale (ai sensi dell’art. 57 Cost.), va detto che assegnare il premio a livello nazionale non esclude un esito differente tra le due Camere, che avrebbero così maggioranze contrapposte: ciò si sarebbe puntualmente verificato nel 2006, quando il centro-sinistra prevalse alla Camera (per soli 24.000 voti, com’è noto) e il centro-destra al Senato. La maggioranza (risicata) a favore del centro-sinistra, invero, fu dovuta solamente all’esito – paradossale, per alcuni versi, ma per altri provvidenziale – dei premi di maggioranza del Senato e consentì la formazione del governo Prodi II, che altrimenti sarebbe stata impossibile e avrebbe schiuso la strada alle larghe intese oppure a nuove elezioni.
Certamente, si potrebbe obiettare che i risultati elettorali del 2013 saranno condizionati dalla presenza di almeno quattro grandi forze politiche in competizione tra loro – anziché due –, il che rende oggettivamente più difficile il conseguimento della maggioranza assoluta al Senato e lascia addirittura presagire, secondo molti, scenari di stampo weimariano. Tuttavia, l’irrazionalità della legge elettorale del Senato è tale da far auspicare un suo sollecito superamento, essendo essa del tutto inidonea a creare le condizioni per la formazione di maggioranze stabili e coese atte a sostenere l’azione di un esecutivo forte ed autorevole. La legge elettorale, come si è detto poc’anzi, non può esimersi dal tenere conto dell’assetto bicamerale del Parlamento italiano e, in ragione di ciò, deve essere funzionale all’omogeneità politica delle due assemblee, condizione indispensabile per governare ed evitare che la macchina istituzionale si inceppi.