Governo di minoranza e art. 94 cost.

di Vincenzo Iacovissi

L’esito epocale delle consultazioni politiche – già commentato dalle colonne di Ballot – pone una serie rilevante di problemi istituzionali, tra cui, si affaccia, prepotentemente, l’ipotesi della formazione di un Governo c.d. “di minoranza”.

I difficili equilibri del Senato, e lo stesso risultato della Camera dei Deputati (con il primo partito diverso dalla coalizione vincente), infatti, determinano una delicatissima situazione politico-parlamentare con inevitabili ricadute sulle scadenze istituzionali che si succederanno nelle prossime settimane, ad iniziare dall’insediamento e l’elezione dei vertici delle due Assemblee parlamentari. Inoltre, la nuova articolazione del sistema politico sulla base di tre pilastri principali, centrodestra, centrosinistra e movimento 5 stelle, amplifica la difficile ricerca di equilibri in grado di facilitare l’emersione di una compagine governativa sostenuta da una chiara e solida base parlamentare.

In questo quadro, nel contempo incerto e assolutamente sconosciuto all’esperienza costituzionale italiana in simili proporzioni, vengono rappresentati gli scenari più disparati sulle prospettive di governo del Paese. Al di là della praticabilità politica delle diverse vie d’uscita indicate – sulle quali è prematuro esprimere giudizi o previsioni – ci sembra opportuno concentrarci sull’ipotesi volta ad agevolare la formazione di un Governo di minoranza.

Come noto, con tale formula ci si riferisce ad un istituto presente nel panorama comparato – soprattutto negli ordinamenti scandinavi – laddove viene nominato un Gabinetto sostenuto da una maggioranza solo relativa dei seggi parlamentari.

Alcuni esponenti del movimento 5 stelle hanno suggerito, altresì, di applicare a livello centrale il modello Sicilia, regione nella quale la Giunta Crocetta può, di volta in volta e a seconda della natura del provvedimento, contare anche sui voti dei consiglieri di tale movimento, che non appartengono alla maggioranza politica che sostiene la Giunta.

A questo punto sono opportune alcune precisazioni.

La forma di governo regionale è basata sull’elezione diretta del capo dell’Esecutivo e su un rapporto fiduciario Giunta-Consiglio che si ritiene presunto sino all’esplicita revoca del sostegno da parte della maggioranza consiliare ovvero delle dimissioni volontarie del Presidente della Giunta, cui discendono l’automatico scioglimento del Consiglio e le dimissioni della Giunta, in virtù della clausola aut simul stabunt, aut simul candent (art. 126 cost.). In altri termini, la Giunta regionale non ha bisogno, per restare in carica, di un voto di investitura da parte del Consiglio, in ragione della legittimazione diretta di cui beneficia il vertice della regione, e quindi è ammissibile la presenza di maggioranze “a geometria variabile” materia per materia.

Le medesime condizioni non si rinvengono a livello statale, poiché la forma di governo parlamentare voluta dai Costituenti risulta caratterizzata da un rapporto fiduciario tra Esecutivo e Legislativo che opera in via esplicita sin dall’inizio. Ecco la ragione per cui l’art. 94 cost. – cuore del nostro assetto istituzionale – stabilisce che “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere” e, soprattutto, che “Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia”.

Le disposizioni richiamate pongono regole molto chiare da osservare per la permanenza in carica del Governo. Concretamente, può accadere, ed è già accaduto nella storia repubblicana, che si formi un Governo che goda di un consenso relativo in uno o in entrambe le Assemblee. Ma per rispettare il disposto costituzionale dell’art. 94 cost. sarà comunque necessario che esso riceva una fiducia iniziale da parte di entrambi i rami con votazione per appello nominale.

La Costituzione non stabilisce il requisito della maggioranza assoluta. Pertanto, l’investitura di ciascuna Camera al Governo appena nominato dal Capo dello Stato può avvenire con una maggioranza semplice, ma ricorrendo, comunque, a comportamenti tali da far presumere, se non un consenso pieno, almeno una “non sfiducia” da parte di alcune componenti parlamentari.
Tecnicamente, ciò è possibile alla Camera con i voti di astensione (che non vengono computati per il quorum della deliberazione) oppure, al Senato, con la fuoriuscita dall’aula di alcuni senatori al momento della votazione, in modo da abbassare il quorum per l’approvazione della mozione di fiducia (si ricorda, per inciso, che al Senato l’astensione equivale a voto contrario).

In entrambi i casi, si tratta di atti dalla precisa valenza politica da parte di quelle forze che, seppur non organiche alla compagine ministeriale, ne agevolano il superamento dello scoglio previsto dall’art. 94 cost.

Un Governo di minoranza è possibile, dunque, ma solo a condizione che non si manifesti in Parlamento un’esplicita maggioranza ad esso ostile. Tertium non datur.

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