Commissioni parlamentari senza Governo? (2)

di Gabriele Maestri

Più che un confronto, la questione legata all’insediamento e all’inizio dell’attività delle Commissioni parlamentari permanenti si sta trasformando nella versione assurda di uno psicodramma, che vede coinvolti i vari gruppi di Camera e Senato – il che non è strano – ma anche vari esponenti del mondo accademico (specie se hanno alle spalle un’esperienza in Parlamento o alla Corte costituzionale), chiamati a intervenire sugli organi di informazione e non di rado in contrasto tra loro a colpi di opinioni e precedenti citati. Vale la pena allora cercare di mettere qualche punto fermo, per chiarire alcuni termini della questione.

Il primo: il contenuto delle disposizioni. I regolamenti di Camera e Senato, i testi fondamentali per il funzionamento delle assemblee, si limitano a dire che, dopo la sua costituzione, ogni gruppo parlamentare comunica alla Presidenza dell’aula i componenti di ciascuna Commissione (per i dettagli sui tempi e sui numeri, si rimanda all’art. 19 Reg. Cam. e all’art. 21 Reg. Sen.) e tocca al Presidente del ramo del Parlamento collocare quelli eventualmente “sfaccendati” dopo le indicazioni dei gruppi, «in modo che in ciascuna Commissione sia rispecchiata, per quanto possibile, la proporzione esistente in Assemblea tra tutti i Gruppi parlamentari». Questo canone è indicato con parole simili dai regolamenti, ma prima ancora è sancito dall’art. 72, comma 3 della Costituzione, unica fonte cui i regolamenti parlamentari siano sottoposti. Una volta riempite tutte le caselle, si può procedere alla prima convocazione delle Commissioni (art. 20 R.C. e art. 29 R.S.), che devono provvedere innanzitutto all’elezione dell’Ufficio di Presidenza, per poi iniziare la loro attività “regolare”. Stop, almeno per ora. Se ci si limita all’avvio del meccanismo, la costituzione delle Commissioni non richiede altro.

Secondo punto fermo: cosa non c’è scritto. Se le disposizioni sono quelle che ho citato – sono più complesse, in realtà, per cui rimando alla loro lettura integrale – significa che non c’è un vincolo espresso legato all’esistenza di un “nuovo” Governo: tocca ai gruppi indicare i componenti delle Commissioni (e più di un gruppo non l’ha fatto), tocca ai Presidenti convocarle appena i nomi arrivano tutti, come ricordato anche dall’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick sul Fatto Quotidiano. Non c’entrano nulla norme che pure sono state invocate in questi giorni, come l’art. 30, comma 3 della legge n. 124/2007, istituiva tra l’altro del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir, uno degli organi di garanzia e controllo di cui il Movimento 5 Stelle nei giorni scorsi “rivendicava” la guida): si dice in effetti che «Il presidente è eletto tra i componenti appartenenti ai gruppi di opposizione» e, dunque, bisognerebbe capire prima di tutto chi rappresenta l’opposizione, ma è del tutto evidente che la norma riguarda solo quell’organo e non anche le Commissioni parlamentari permanenti.

Ma allora perché il presidente del Senato Pietro Grasso insiste tuttora nel non convocare le Commissioni? Se le disposizioni sono quelle già viste, si può procedere tranquillamente e tutto va bene? La risposta, in tutta onestà, dovrebbe essere «no» o, per lo meno, dovrebbe tradursi in un pesante scuotimento di testa, pieno di perplessità. Perché le disposizioni di regolamento ci sono e vanno rispettate, certo, ma esistono anche regole non scritte, a volte anche solo di opportunità, e devono essere debitamente considerate e, prima ancora, conosciute.

Va sviluppata innanzitutto l’osservazione fatta prima a proposito del Copasir. Gli eletti del M5S hanno detto di volere la guida di quell’organo e della Commissione parlamentare di indirizzo e vigilanza per i servizi radiotelevisivi (la cui Presidenza è affidata all’opposizione, non per legge o per regolamento, ma per prassi consolidata), dunque sono ben consci del fatto che i ruoli di “garanzia” – non solo i due citati ma anche, ad esempio, le Giunte delle elezioni e delle autorizzazioni – spettano tradizionalmente all’opposizione. Il problema, tuttavia, è comprendere chi effettivamente sieda all’opposizione e chi in maggioranza. Perché se è vero che all’opposizione sono normalmente riservati i ruoli di controllo, qualcun altro dovrà ricoprire quelli di norma riservati alla “maggioranza”, ruoli decisamente delicati. Le Commissioni parlamentari, infatti, sono «gli organi “incollati” al governo – spiega nel suo manuale di diritto parlamentare Andrea Manzella, costituzionalista con un passato da parlamentare italiano ed europeo – che hanno quotidiano contatto con i ministri e i sottosegretari preposti ai settori di competenza e con la somma dei problemi che vi si annidano».

Quale maggioranza potrebbe individuarsi in questo momento? Il presidente Napolitano ha ricordato, nel Sabato santo, che il governo in carica è ancora quello presieduto da Mario Monti, «benché dimissionario e peraltro non sfiduciato dal Parlamento». Vero, per carità. Ma qualche conto non torna. Innanzitutto, se non ci sarà un nuovo governo al suo posto, quale sarebbe (se esiste) la maggioranza che sostiene l’esecutivo Monti e dunque potrà esprimere a buon diritto i presidenti delle Commissioni? Quella che ne ha consentito la nascita nel 2011 (Pd-Pdl-Udc e gruppi minori)? Quella che di fatto ha continuato a sostenerlo alla conclusione della legislatura (l’Udc, parte del Pd e di nuovo gruppi vari)? Non si tratta, a ben guardare, solo di una questione di equilibri politici, bensì di sostanza costituzionale. Se infatti nel nostro sistema – a differenza di quello belga, per inciso – occorre che fin dall’inizio sussista un rapporto fiduciario tra Camere e Governo, al momento questo rapporto non è stato verificato. È vero, il governo Monti non è stato sfiduciato, né è caduto su una questione di fiducia, ma essendo dimissionario è rimasto in carica per il solo «disbrigo degli affari correnti», espressione tipica del Segretario generale della Presidenza della Repubblica che si può avvicinare a quella di «ordinaria amministrazione».

Non c’è unanimità sulla portata di queste “etichette”, sebbene contengano in sé l’idea di un limite più o meno “pesante” ai margini di manovra di cui ciascun esecutivo dispone: l’opinione prevalente in dottrina – lo ha ricordato da ultimo Lorenzo Cuocolo su lavoce.info – è che «la restrizione dei poteri derivi dalla prassi e dalla correttezza costituzionale». Il che sembra tanto più vero non solo quando il governo dimissionario sia stato sfiduciato – il che è ovvio – ma anche quando sia stato del tutto rinnovato il Parlamento, non essendosi verosimilmente replicate (e in questo caso non ci sono dubbi) le condizioni che nella legislatura precedente avevano consentito la nascita di un determinato governo. Non sembra allora affatto fuori luogo sostenere che, se non è possibile formare un nuovo esecutivo (chiedendo a Bersani, ancora formalmente preincaricato, o ad altri di verificare i numeri in aula), il Presidente della Repubblica dovrebbe rinviare il governo Monti alle Camere perché ottenga di nuovo la fiducia, con i tempi prescritti dai regolamenti parlamentari. Ciò per dire che allo Stato occorre un Governo, prima ancora di un Parlamento che funziona (anche grazie alle Commissioni); non si dimentichi, tra l’altro, che il giornalista e studioso di politica Walter Bagheot, già a metà dell’Ottocento aveva identificato il ruolo principale di un Parlamento nella funzione elettiva, dunque nell’indicazione chiara di un Governo, oltre che nella scrittura delle leggi (e non è un caso che l’iniziativa di certe leggi sia proprio riservata al Governo).

L’assoluta priorità, dunque, è avere un nuovo esecutivo o, per lo meno, verificare la fiducia del governo dimissionario: in quest’ultimo caso, saranno finalmente chiare la conformazione di maggioranza e opposizione. E questo non serve solo perché, come ricordato sempre sul Fatto Quotidiano da Stefano Ceccanti (docente di diritto pubblico comparato e senatore nella scorsa legislatura), «se una maggioranza è composta da almeno due partiti (A e B), per garantire la massima rappresentatività e il dialogo istituzionale si è soliti affidare il ministero al partito A e la presidenza della Commissione competente al partito B» e, in generale, «la maggioranza deve sempre tenersi strette le Commissioni Bilancio e Affari costituzionali». Anche nell’ipotesi – non apprezzabile – che non si voglia verificare la fiducia del governo Monti, i vari gruppi parlamentari dovrebbero mettersi una mano sul cuore e concordare tra loro la ripartizione delle Presidenze (magari in base alla consistenza dei gruppi), altrimenti si rischierebbe di affidarsi ai numeri del voto segreto degli scrutini successivi al primo, con risultati poco confortanti sul piano della stabilità.

I problemi, peraltro, non sarebbero affatto risolti. È proprio il Movimento 5 Stelle a chiedere che le Commissioni siano messe in grado di funzionare perché si possa iniziare a discutere i vari progetti di legge presentati. Il fatto è che la programmazione dei lavori delle Commissioni dipende strettamente da quella delle Assemblee, decisa attraverso la Conferenza dei capigruppo: proprio in questo senso i regolamenti parlamentari prevedono “corsie preferenziali” per le priorità indicate dal Governo (e, si suppone, dalla sua maggioranza) e spazi “riservati” alle attività di ispezione e controllo, nonché a progetti di legge e documenti presentati dall’opposizione. Ecco dunque che, per l’ennesima volta, è necessario che risulti con chiarezza “chi fa cosa”: attivare le Commissioni è giusto, farle partire per poi non sapere cosa far fare loro o costringerle a impantanarsi in fretta è decisamente inopportuno.

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2 risposte a Commissioni parlamentari senza Governo? (2)

  1. marilena ha detto:

    mi chiedo poi, una volta fatte le leggi chi le eseguirebbe se non c’è un Governo?

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