di Alessandro Gigliotti
Con 738 voti su un totale di 997 votanti, il Parlamento in seduta comune, integrato dai delegati regionali, ha eletto – o, per meglio dire, rieletto – Giorgio Napolitano alla carica di Presidente della Repubblica. Dopo cinque scrutini andati a vuoto, nei quali erano progressivamente cadute le candidature di Franco Marini e Romano Prodi mentre quella di Rodotà, suggerita dal Movimento 5 Stelle, non sembrava sfondare, il Parlamento ha deciso di convergere sul nome di Giorgio Napolitano.
L’operazione, che è stata preceduta da un accorato appello rivolto dalle principali forze politiche al Capo dello Stato affinché questi accettasse una nuova candidatura al Quirinale, deve essere salutata con enorme favore. L’Italia aveva bisogno di individuare una figura di spessore, che contemperasse una profonda conoscenza dei meccanismi della politica, la capacità di attirare un consenso condiviso, l’autorevolezza per risolvere la crisi istituzionale in corso e, particolare da non trascurare, un adeguato prestigio internazionale. Ebbene, nessuno meglio di Napolitano risponde ai requisiti descritti. Ne danno conferma l’unanime apprezzamento manifestato dai vertici istituzionali dei principali Paesi dell’area occidentale e la prospettiva di un governo di larghe intese, che già si profila in queste ore e che allontana inesorabilmente l’apocalittico scenario delle elezioni anticipate.
Tuttavia, in quanto accaduto vi è anche un rovescio della medaglia, non soltanto per la scelta in sé di confermare il Presidente uscente, scelta che non ha precedenti nella storia costituzionale repubblicana. L’art. 85 della Costituzione, in realtà, fissa in sette anni la durata del mandato presidenziale ma non ne vieta espressamente la rielezione. Il costituente riteneva, infatti, che una permanenza in carica maggiore di quelle delle Camere potesse rendere il Capo dello Stato del tutto indipendente dalle maggioranze parlamentari di volta in volta esistenti; pur tuttavia, la rielezione del Presidente uscente, implicando una permanenza al Quirinale di 14 anni, non è mai stata presa in considerazione per evidenti ragioni di opportunità, giacché sarebbe stata interpretata come una trasformazione dell’ordinamento repubblicano in una sorta di «monarchia elettiva». La conferma di Giorgio Napolitano, pertanto, deve essere letta come una certificazione dell’eccezionalità del momento e della crisi politico-istituzionale che il Paese sta attraversando. D’altro canto, il mondo politico italiano era certamente in condizione di esprimere candidature altrettanto autorevoli per la suprema carica istituzionale, eppure il Parlamento – dopo aver dato prova di non essere in grado di costituire una maggioranza parlamentare per formare un nuovo Governo – non è riuscito a convergere su un nome condiviso, denotando un grado di frammentazione e fragilità superiore alle più funeste previsioni. A quanti hanno messo in evidenza la deriva weimariana assunta dall’Italia negli ultimi mesi, non sarà certo sfuggita l’assonanza con le elezioni presidenziali tedesche del 1932, quando il popolo riversò in massa il proprio voto a favore del Presidente uscente, Hindenburg, nel timore di un eventuale successo di Adolf Hitler.
Si osservi poi che la rielezione di Napolitano veniva generalmente considerata, per motivi di carattere anagrafico, come una «proroga» temporanea del suo mandato. E, invece, occorre sottolineare che la Costituzione non prevede alcuna ipotesi del genere, tant’è che il Presidente Napolitano si trova, in virtù della nuova elezione, nella pienezza dei poteri per tutto il settennato. Se venisse confermata la scelta di un mandato a tempo, si rischierebbe pertanto di avere al Quirinale un Presidente depotenziato e vulnerabile, mentre la politica italiana finirebbe per essere condizionata da un «conclave permanente», una situazione cioè nella quale le forze politiche sarebbero in costante attesa di un passo indietro del Capo dello Stato e di un’imminente tornata elettorale.
La rielezione di Napolitano – checché se ne dica in taluni ambienti – è stata espressione limpida del gioco democratico, frutto di una libera e consapevole scelta dei mille grandi elettori. Tuttavia, essa è il segno tangibile – se mai ve ne fosse ulteriore bisogno – della profonda crisi politica ed istituzionale nella quale il Paese è ormai piombata da tempo e dalla quale stenta ad uscire. Una crisi per superare la quale occorre un forte senso di responsabilità. Da parte di tutti.