Washington, Parigi o Caracas? Una bussola per le riforme

di Vincenzo Iacovissi

In queste settimane è tornato prepotentemente d’attualità il tema delle riforme istituzionali, e tra esse spicca per rilevanza quello relativo alle modalità di elezione del capo dello Stato.

Come noto, il nostro ordinamento configura il presidente della Repubblica come un “potere neutro”, garante politico della Costituzione e rappresentante dell’unità nazionale, una figura di equilibrio e moderazione estranea alla dialettica politica e, soprattutto, all’articolazione tra parlamento e governo. I costituenti, nel disegnare un organo con tali caratteristiche, non potevano non prevedere una legittimazione “mediata”, “indiretta”, sancendo così la procedura di elezione del vertice della Repubblica da parte di un collegio, il parlamento in seduta comune integrato dai delegati regionali, che operasse scelte ponderate e consapevoli, al di fuori dell’emozionalità e della contingenza che invece l’elezione diretta da parte del corpo elettorale avrebbe potuto comportare.

In realtà, a nostro giudizio, la ratio di questa elezione di secondo grado sarebbe da ricercare nella necessità di sottrarre alle logiche politiche di schieramento il soggetto chiamato a ricoprire l’alta magistratura, affinché esso possa essere percepito come presidente di tutta la comunità statuale, senza elementi di divisione o partigianeria.

Sappiamo bene, tuttavia, che la concreta dinamica istituzionale, nei decenni che ci separano dalla scelta dei costituenti, non ha fatto sempre piena prova degli obiettivi richiamati, e controverse sono state, in effetti, diverse elezioni presidenziali, all’interno delle quali si sono consumati tradimenti, fratture, veti incrociati e così via. Ciò nonostante, la pressoché totalità degli inquilini del Quirinale ha operato in linea con la lettera e lo spirito della Costituzione, assicurando all’Italia presidenti della Repubblica garanti dell’equilibrio tra poteri e delle istituzioni.

Dopo le poco commendevoli vicende che hanno caratterizzato l’ultima elezione presidenziale, sono tornate in superficie diverse proposte volte alla modifica dell’attuale procedimento, per conferire la scelta direttamente nelle mani dei cittadini. E, proprio qualche giorno fa, il premier in carica ha dichiarato la volontà di rivedere le regole per evitare il ripetersi dello stallo dell’aprile scorso. A simile auspicio si sono associati quelli di molti altri, tutti volti a superare la situazione attuale per affidare al corpo elettorale il compito di eleggere il proprio capo dello Stato.

Si è parlato, a tal proposito, di presidenzialismo e di semipresidenzialismo, senza però approfondire le fondamentali differenze esistenti tra i due modelli, nonché le possibili ricadute sul sistema costituzionale.

La forma di governo presidenziale, vigente negli Stati Uniti, si fonda su una netta separazione di poteri, sull’elezione diretta sia dell’organo legislativo (congresso) che del vertice del potere esecutivo (il presidente), i quali esplicano le loro funzioni senza necessità di un rapporto fiduciario tipico delle forme di governo parlamentari (come quella italiana). In questo quadro, al capo dello Stato vengono riconosciuti notevolissimi poteri di amministrazione, cui si contrappone il ruolo preponderante del congresso nell’esercizio della potestà legislativa. Il check and balance che informa il modello statunitense si basa, quindi, su un equilibrio tra poteri che ricevono una autonoma fonte di legittimazione e che, per restare in carica, non dipendono l’uno dall’altro: così, il presidente non può sciogliere il congresso e questo non può sfiduciare il presidente, ma entrambi i soggetti contribuiscono all’elaborazione delle politiche pubbliche, ciascuno dalla propria posizione, con controlli e bilanciamenti reciproci.

La Francia è, invece, il Paese in cui opera, dal 1958, una forma di governo parlamentare razionalizzata di tipo dualistico, in cui il capo dello Stato viene eletto direttamente dai cittadini (dal 1962), gode di una pluralità di attribuzioni di politica attiva, ed esercita il potere esecutivo con e per il tramite di un governo da esso nominato e che deve godere della fiducia di un ramo del parlamento, l’assemblea nazionale. Il governo si trova in una regime di “doppia fiducia”, in quanto è emanazione del presidente eletto dai cittadini, ma deve anche avere il sostegno del ramo elettivo del parlamento (il senato è scelto in via indiretta da un collegio rappresentativo delle articolazioni locali). In caso di omogeneità di risultato tra elezioni presidenziali e parlamentari, il capo dello stato si pone come dominus del sistema, oscurando il ruolo del primo ministro e del governo. In caso di disomogeneità, si assiste al fenomeno della cohabitation, ossia la compresenza di un presidente di estrazione politica diversa da quella espressa dalla maggioranza parlamentare che sostiene il governo, con effetti di riduzione del ruolo presidenziale a beneficio di un meccanismo più chiaramente parlamentaristico.

Infine, una derivazione della forma di governo presidenziale è quella introdotta in quegli ordinamenti, soprattutto dell’area latinoamericana, laddove l’elezione diretta del capo dello stato non è accompagnata dai contrappesi che caratterizzano la Costituzione Usa, con conseguente riduzione del ruolo del parlamento e potenziale scivolamento verso forme di tipo autoritario, come accaduto – ma è solo l’esempio più recente in ordine di tempo – in Venezuela.

Simili differenze tra modelli dovrebbero essere tenute in debito conto, così da conoscerne pregi e difetti, per tentare una sintesi efficace. Così come rilevante è capire quali effetti comporterebbe l’adozione di ciascun modello su sistemi partitici frammentati e molto fragili come quello della seconda fase della vicenda repubblicana attuale.

Il dibattito, sino ad ora, è apparso invece muoversi con grande disinvoltura tra Washington, Parigi e Caracas, senza percepirne realmente il senso. Siamo speranzosi che il procedimento di riforma costituzionale, che vedrà la luce nei prossimi mesi con l’ausilio di una autorevole commissione di esperti, possa fissare con chiarezza i punti cardinali della nuova geografia istituzionale, compiendo scelte consapevoli e senza perdere la bussola nel labirinto dell’innovazione.

Magari facendo tesoro degli errori del passato.

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