di Alessandro Gigliotti
La sentenza di condanna a quattro anni di reclusione comminata al leader del centro-destra Silvio Berlusconi per frode fiscale, divenuta ormai definitiva dopo il passaggio in Cassazione del 1° agosto, apre nuovi scenari non soltanto per l’inevitabile impatto che essa avrà sul quadro politico, ma anche per ciò che attiene più nello specifico ai lavori parlamentari. Uno dei possibili effetti della sentenza, infatti, è quello di determinare la decadenza dal seggio parlamentare; tuttavia, la faccenda è alquanto intricata e richiede alcuni chiarimenti.
Anzitutto, occorre premettere che – salvo quanto si dirà tra breve – un soggetto colpito da una sentenza penale di condanna non decade automaticamente da una carica pubblica, quand’anche questa preveda la pena della reclusione. Detto altrimenti, un deputato o senatore non perde il proprio seggio parlamentare per il solo fatto di essere stato colpito da una sentenza che lo condanni alla reclusione, se non nel caso in cui – accanto alla pena carceraria – sia prevista anche quella «accessoria» dell’interdizione (temporanea o perpetua) dai pubblici uffici. Al di fuori del caso richiamato, al contrario, un membro del Parlamento in stato di detenzione mantiene la carica, a meno che non decida liberamente di rassegnare le dimissioni: per quanto possa apparire assurdo – come può un membro del Parlamento condannato al carcere restare in carica e, in particolare, partecipare alle attività parlamentari? -, si tratta di una possibilità concreta, ben nota a tutti coloro che hanno una certa dimestichezza con il diritto delle assemblee legislative.
In secondo luogo, è bene chiarire che, pur dinnanzi ad una sentenza passata in giudicato che sancisca, oltre alla pena della reclusione, anche l’interdizione dai pubblici uffici, la decadenza dal mandato parlamentare non è affatto automatica. Ciò discende dall’art. 66 della Costituzione, in base al quale spetta ad ogni singola Camera giudicare sui titoli di ammissione dei propri componenti e sulle cause sopravvenute di ineleggibilità e di incompatibilità. L’interdizione dai pubblici uffici, sia essa perpetua ovvero temporanea, si sostanzia infatti in una causa di «ineleggibilità sopravvenuta», la quale deve essere pertanto oggetto di una valutazione da parte dell’assemblea di appartenenza. I regolamenti dei due rami del Parlamento, a tal fine, prevedono che la questione sia sottoposta ad un organo con compiti istruttori (la Giunta delle elezioni alla Camera, la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari al Senato), il quale riferisce all’assemblea che delibera in via definitiva. Ciò significa che una Camera può esprimersi in senso contrario alla decadenza anche di fronte ad un parlamentare colpito da interdizione dai pubblici uffici. La decisione parlamentare è infatti insindacabile, in ossequio al principio dell’intangibilità degli interna corporis.
Il quadro descritto è ora mutato, però, per via dell’entrata in vigore del recente «decreto anticorruzione» (d.lgs. 235/2012), il quale prevede l’incandidabilità per la carica di deputato e senatore di coloro che abbiano riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per un serie di reati espressamente previsti. Più in dettaglio, il decreto anticorruzione prevede che l’incandidabilità decorra dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna ed abbia effetto per un periodo corrispondente al doppio dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici. In ogni caso, anche in assenza dell’interdizione, essa non è inferiore a sei anni e inibisce anche la possibilità di assumere incarichi di governo. Nel caso in cui la sentenza venga a colpire un parlamentare in carica, inoltre, si prospetta un’ipotesi in «incandidabilità sopravvenuta», su cui spetta alla Camera di appartenenza deliberare ai sensi del già richiamato art. 66 della Costituzione.
Ciò posto, la questione che interessa il leader del centro-destra, Silvio Berlusconi, è molto complessa per una serie di fattori: da un lato, la «pena accessoria» dell’interdizione dai pubblici uffici – che, per la fattispecie di frode fiscale, è ricompresa tra uno e tre anni – dovrà essere rideterminata dalla Corte d’Appello, la quale si pronuncerà solo in autunno. Al momento, pertanto, il sen. Berlusconi è condannato ma non ancora interdetto; in virtù della condanna, però, si applica qui – o, meglio, dovrebbe applicarsi, come si vedrà tra breve – il «decreto anticorruzione», in base al quale sono incandidabili alla carica di deputato e senatore «coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, determinata ai sensi dell’articolo 278 del codice di procedura penale».
Il Senato della Repubblica, pertanto, si troverà a dover decidere, già nelle prossime ore, in merito alla presunta incandidabilità sopravvenuta del sen. Berlusconi ed alla conseguente decadenza. Impossibile, al momento, prevedere gli esiti, non solo e non tanto perché l’assemblea – come si è detto – non si limita affatto a prendere atto della sentenza, ma anche perché l’interpretazione del decreto anticorruzione non è così scontata. Nei giorni scorsi, da più parti è stata avanzata la tesi secondo cui il decreto non sarebbe applicabile nei confronti del sen. Berlusconi. In primo luogo, si è sostenuto che il decreto dovrebbe trovare applicazione solamente nei confronti dei reati commessi a partire dall’entrata in vigore dello stesso (5 gennaio 2013), in virtù del principio dell’irretroattività della norma penale; tuttavia, è dubbio che le norme in oggetto abbiano natura penale o processuale, prevedendo una semplice limitazione dell’elettorato passivo derivante da una sentenza irrevocabile di condanna. Secondo il prof. Stefano Ceccanti, relatore al Senato del disegno di legge che ha operato la delega al Governo, la norma trova applicazione non soltanto nei confronti dei reati precedenti, ma altresì delle sentenze pregresse. Secondariamente, si pone un problema sull’entità della pena, dal momento che il sen. Berlusconi è stato condannato a quattro anni di reclusione, dei quali tre risultano però condonati da indulto; da qui il dubbio se il decreto anticorruzione sia applicabile, essendo la pena effettiva inferiore ai due anni contemplati dal provvedimento.
Spetta ora alla Giunta del Senato fare luce sulla vicenda. A tal proposito, merita ricordare che, a norma dell’art. 135-ter del regolamento, l’Assemblea non è chiamata a deliberare formalmente sulle proposte della Giunta nel caso in cui essa intenda recepirle interamente. Qualora invece venti senatori presentino un ordine del giorno in senso difforme rispetto alla proposta dell’organo, l’Assemblea è chiamata a pronunciarsi espressamente con votazione a scrutinio segreto. Una votazione, ça va sans dire, nella quale tutto può succedere.
Semplicemente pazzesco che una condanna in cassazione sia sottoposta al giudizio del parlamento per la sua applicabilità (quarto giudizio ) – ma la legge non è uguale per tutti ???????
In realtà non si tratta di un quarto grado di giudizio, poiché la condanna è immediatamente esecutiva (anche se essa avrà effetto a partire dal 15 ottobre). Tuttavia, la nostra Costituzione prevede che la decadenza dal mandato di un parlamentare, colpito dall’interdizione dai pubblici uffici o da una qualunque altra causa che ne precluda l’appartenenza ad una delle due Camere, sia deliberata dalla rispettiva assemblea. In altri ordinamenti, invece, la competenza a decidere su tali questioni è da tempo assegnata alla magistratura, alle corti costituzionali od altri organi ad hoc. La ratio è evidente: non può essere una maggioranza politica a decidere sulla permanenza in carica di un parlamentare. Nemo iudex in causa sua.