di Alessandro Gigliotti
L’annuncio delle dimissioni di massa dei parlamentari eletti nelle file del Popolo della Libertà, più volte dato nelle settimane scorse ed ora deliberato all’unanimità e per acclamazione in occasione della riunione dei gruppi parlamentari dei due rami del Parlamento, mette a serio rischio la durata della XVII legislatura repubblicana.
Di per sé, non si tratta di una notizia inaspettata, poiché a seguito della condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale i principali esponenti del Popolo della Libertà avevano lasciato espressamente intuire che, in caso di decadenza dal seggio del proprio leader, non soltanto i ministri avrebbero rassegnato le dimissioni dalla carica ministeriale, ma altresì i parlamentari avrebbero rinunciato al proprio scranno. La novità consiste, appunto, nella decisione ufficiale assunta dalla riunione dei gruppi parlamentari di Camera e Senato, suggellata dalla sottoscrizione di una lettera di dimissioni che deputati e senatori hanno consegnato ai rispettivi capigruppo. Impegno, beninteso, politicamente significativo ma che al momento non possiede alcuna portata vincolante, posto che le dimissioni non hanno effetto se dopo essere formalizzate attraverso la presentazione al Presidente di Assemblea.
Naturalmente, il gesto non sortirebbe tanto l’effetto di esprimere solidarietà nei confronti del leader decaduto, quanto quello di indurre il Capo dello Stato a decretare lo scioglimento delle due assemblee parlamentari – a distanza di pochissimi mesi dall’avvio della legislatura – e ad indire conseguentemente le elezioni anticipate. Tuttavia, la strada che porta al voto non è così priva di ostacoli.
Anzitutto – e, segnatamente, prescindendo dal significato politico del gesto – è opportuno ricordare che nel nostro ordinamento non è previsto l’istituto delle dimissioni di massa. Ogni singolo parlamentare, non essendo soggetto ad alcun vincolo di mandato, è libero o meno di rassegnare le proprie dimissioni, ma non può condizionare la propria permanenza in carica alla scelta concomitante di altri membri della medesima assemblea. Se politicamente la decisione di rassegnare le dimissioni in blocco assume un significato pregnante, giuridicamente parlando le dimissioni resterebbero individuali e come tali dovrebbero essere valutate dall’assemblea. Ciò significa, in altri termini, che esse avrebbero l’effetto di richiedere una specifica votazione per ciascuno dei parlamentari coinvolti: è infatti all’assemblea che spetta deliberare in via definitiva sulla permanenza di un carica di un proprio membro, anche di fronte a dimissioni spontanee. E, dal momento che la votazione investe una questione di carattere personale, essa deve svolgersi a scrutinio segreto, tanto da prefigurare la situazione paradossale nella quale le dimissioni potrebbero essere accolte per alcuni parlamentari e respinte per altri. Né tanto meno si può escludere, almeno astrattamente, che le dimissioni vengano bocciate in toto da una maggioranza contraria alla deriva «aventiniana».
Inoltre, le dimissioni dei parlamentari – qualora venissero accolte dal voto dell’assemblea – non andrebbero a paralizzare immediatamente l’attività delle Camere, determinando la proclamazione di un egual numero di subentranti: in corrispondenza di ogni parlamentare dimissionario, pertanto, subentrerebbe il primo dei candidati non eletti, circoscrizione per circoscrizione. Per ottenere l’effetto di paralizzare l’attività delle Camere, dunque, sarebbe necessario che anche i subentranti rassegnassero le dimissioni – che, a loro volta, necessiterebbero del voto dell’assemblea – e il medesimo scenario dovrebbe ripetersi con i successivi subentranti sino all’esaurimento delle candidature disponibili.
C’è però un altro aspetto da considerare. L’art. 84 della legge elettorale della Camera e il corrispondente art. 17 della legge elettorale del Senato prevedono che, nel caso in cui una lista abbia diritto ad un numero di seggi superiore ai candidati disponibili, i seggi residui vengano attribuiti alle liste coalizzate con quella deficitaria. In applicazione della norma richiamata, qualora tutti i candidati presenti nelle liste del Popolo della Libertà dovessero dimettersi, gli uffici elettorali sarebbero chiamati a proclamare eletti i candidati delle liste collegate, cioè Lega Nord e Fratelli d’Italia. Sicché, l’espediente delle dimissioni di massa è inevitabilmente condizionato dalle scelte degli esponenti delle due forze politiche: seguiranno la strada intrapresa dai colleghi del Pdl o approfitteranno della situazione per moltiplicare la propria rappresentanza in Parlamento? Inutile dire che, nella seconda ipotesi, la legislatura sarebbe salva per quanto gli equilibri parlamentari ne risulterebbero fortemente mutati.
Qualora, invece, la deriva «aventiniana» dovesse concretizzarsi, difficilmente la legislatura potrebbe andare avanti. In linea di principio, la mancanza del plenum (630 deputati e 315 senatori elettivi) non è di per sé preclusa dalla Costituzione, poiché le due assemblee sono certamente in grado di operare anche difettando – quale che sia il motivo – del numero di seggi costituzionalmente previsto. Tuttavia, qualora le due Camere si trovassero private di un cospicuo numero di parlamentari, non si potrebbe certo far finta di nulla: per ovvi motivi di diritto cui si aggiungerebbero non meno valide ragioni di carattere politico, se si pone mente al fatto che dalle assemblee rappresentative verrebbe a mancare un’intera area politica. Il Capo dello Stato, pertanto, sarebbe chiamato a sciogliere le Camere e ad indire nuove elezioni.
Un’ultima annotazione. Dal punto di vista politico-istituzionale, il nostro ordinamento conosce un noto precedente storico, per molti versi assimilabile: la secessione dell’Aventino successiva al delitto Matteotti. Non serve ricordare che l’azione di forza fu allora motivata dalla presa di coscienza della svolta autoritaria e antidemocratica che il regime fascista aveva ormai assunto e che sarebbe stata in seguito suggellata da una serie di riforme istituzionali in grado di svuotare lo Statuto albertino. Esistono oggi condizioni tali da giustificare uno strappo di così grave portata? È questa la riflessione da cui dovrebbero muovere gli esponenti politici prima di prendere una decisione in un senso o nell’altro.