di Alessandro Gigliotti
Dopo un procedimento durato alcune settimane, a distanza di quasi quattro mesi dalla condanna definitiva per frode fiscale pronunciata dalla Corte di Cassazione lo scorso 1° agosto, il Senato della Repubblica ha votato la decadenza dal seggio parlamentare di Silvio Berlusconi in applicazione del decreto legislativo n. 235 del 2012 («decreto Severino»). A partire da questa sera, pertanto, il leader di Forza Italia non è più un membro del Parlamento e non potrà ricoprire alcuna carica parlamentare o governativa per i prossimi sei anni. Ciò non esclude, naturalmente, che egli possa continuare a fare politica e mantenere la guida del partito, con le sole limitazioni che derivano dalla condanna, verosimilmente scontata attraverso l’affidamento ai servizi sociali, fin tanto che questa non sarà del tutto scontata.
Si chiude così una lunga e complessa querelle sull’applicabilità del decreto Severino al caso Berlusconi. A chi – del tutto legittimamente – si sarà chiesto, in questi ultimi mesi, perché mai una condanna definitiva, pronunciata dalla Cassazione, abbia richiesto tempi così lunghi per giungere ad una delibera sulla decadenza dal seggio, bisogna rispondere che la Costituzione prevede che giudice sui titoli di ammissione dei componenti delle assemblee parlamentari siano le singole Camere. A tal fine, presso il Senato della Repubblica è stato necessario attendere il lavoro della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, organo a ciò preposto, e successivamente la pronuncia dell’Aula, cui l’art. 66 assegna il potere di decidere in via definitiva sulle proposte di convalida, annullamento o decadenza dalla carica. A seguito della dibattuta questione sulle modalità di scrutinio – la decadenza si decide con voto palese o segreto? – il Presidente del Senato Pietro Grasso ha convocato la Giunta per il regolamento, che nella seduta del 30 ottobre si è espressa a favore del voto palese, ritenendo le votazioni in materia di verifica dei poteri come votazioni sulla regolare composizione dell’organo e non sulla persona. Da ultimo, le scorse settimane sono state caratterizzate dai lavori sulle leggi di stabilità e di bilancio, approvate in aula rispettivamente nella seduta di ieri e in quella di stamattina.
Alla fine, tra la tesi secondo cui il Senato non poteva che prendere atto della sentenza di condanna definitiva e, al contempo, dell’entrata in vigore del decreto sull’incandidabilità e quella, diametralmente opposta, per la quale il principio dell’irretroattività della norma penale escludeva che l’istituto potesse applicarsi ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore, è prevalsa la prima. Il Senato, d’altro canto, non ha preso in considerazione neppure le ipotesi intermedie, volte a sollevare la questione di legittimità costituzionale presso la Corte oppure attendere la sentenza della Cassazione che, nei prossimi mesi, definirà la durata dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici. Non hanno avuto seguito neppure le proposte di attendere il responso sul ricorso alla Corte di Strasburgo e sulla richiesta di revisione del processo penale, presentata nelle scorse ore, né quella di adire la Corte di Giustizia dell’UE.
Chi ha seguito gli eventi politici di questi mesi avrà senz’altro notato che essi sono stati contraddistinti da una forte contrapposizione tra i sostenitori della decadenza e i «difensori» del leader di Forza Italia, i quali hanno evocato addirittura i fantasmi del regime fascista, del colpo di Stato o della fine della democrazia. La lacerazione che ne è scaturita è stata chiaramente favorita dalla centralità della figura politica coinvolta; non deve però dimenticarsi che la decisione da prendere era legata all’interpretazione ed applicazione di una norma di legge. Al di là di come la si pensi nel merito, pertanto, dalla vicenda bisogna trarre un prezioso insegnamento, semmai ve ne fosse ancora bisogno: in un ordinamento democratico, non è possibile assegnare ad un’assemblea politica il compito di giudicare, in via definitiva, sulla verifica dei poteri. Così facendo, il giudizio sulle cause di ineleggibilità, incompatibilità e decadenza e, finanche, sulla mera regolarità delle operazioni elettorali è affidato ad un organo politico, in cui una maggioranza è chiamata a decidere, sostanzialmente, su se stessa. Nemo iudex in causa sua, dicevano i latini. Questo brocardo trova puntuale applicazione nei principali ordinamenti contemporanei, in cui si è da tempo superato il vetusto principio dell’insindacabilità degli interna corporis per affidare il giudizio definitivo sulla verifica delle elezioni ad un organo terzo. La riforma della Costituzione, tema al centro dell’agenda politica dei prossimi mesi, potrebbe partire proprio da qui.