di Vincenzo Iacovissi
La vicenda del decreto “salva Roma”, che ha tenuto impegnati organi di informazione e addetti ai lavori durante le giornate natalizie, testimonia quanto siano urgenti le riforme istituzionali, associate, però, ad un cambiamento di mentalità del ceto politico-parlamentare.
I fatti. Il giorno della vigilia di Natale, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, esprime dubbi sulla conversione del decreto che, varato per scongiurare il default del Comune di Roma, si era via via arricchito di altre misure eterogenee in corso d’opera, assumendo i contorni di un atto omnibus poco confacente con i requisiti previsti dalla normativa costituzionale e ordinaria per la decretazione d’urgenza.
La singolarità del caso consiste non solamente nell’indisponibilità del Capo dello Stato ad avallare la conversione del decreto, ma anche nel fatto che su tale decreto era stata votata qualche ora prima la questione di fiducia da parte di un ramo del Parlamento, con un evidente investimento “politico”, quindi, dell’Esecutivo sul testo che era nel frattempo scaturito dall’esame delle Camere.
Ora, non possono sfuggire la portata dell’evento né i suoi risvolti nella dinamica di funzionamento del sistema costituzionale. È fin troppo evidente, infatti, che l’abuso della decretazione di urgenza al di fuori dei confini tracciati dall’art. 77 cost. rappresenti una delle principali criticità della forma di governo italiana, e pertanto interventi che ne limitino la progressiva degenerazione appaiono non solo opportuni, ma doverosi. Così come è innegabile che, negli ultimi due decenni, il fenomeno ha assunto proporzioni inaccettabili, rendendo ineludibile una inversione di rotta.
Ma, sullo sfondo della vicenda, si staglia il ben più profondo tema degli strumenti a disposizione del Governo per incidere nel procedimento legislativo, oltre che quello, altrettanto rilevante, di un certo malcostume della rappresentanza parlamentare nella promozione di interessi settoriali e privi di una connessione organica con gli oggetti dei diversi provvedimenti all’ordine del giorno delle Assemblee.
In altri termini, gli episodi di decreti omnibus e privi di copertura costituzionale si pongono, nel nostro ordinamento, da almeno un trentennio, e neanche la famigerata pronuncia della Corte costituzionale n. 360 del 1996 è riuscita ad arrestarli. I decreti non convertiti nei termini previsti non vengono più reiterati nel contenuto, come avveniva sino a quella sentenza del ’96, in compenso, però, essi vengono sovraccaricati di contenuti del tutto estranei alla materia iniziale, oggetto della “straordinaria necessità ed urgenza” di cui all’art. 77 della Costituzione.
E anche quando “l’assalto alla diligenza” (per usare una famosa espressione coniata ai tempi dell’approvazione delle leggi finanziarie di qualche anno fa) viene stoppato, come nel caso in commento, i vagoni aggiunti al treno originario vengono solamente posticipati oppure associati al successivo treno in partenza, come sta accadendo in queste ore con il varo del decreto “milleproroghe”, nel quale verranno recuperate alcune norme del non convertito decreto “salva Roma”.
Per tali ragioni, sino a quando non verranno profondamente rivisti i rapporti tra Governo e Parlamento (o meglio, la maggioranza parlamentare), conferendo al primo incisivi poteri di incisione sull’attività legislativa senza infingimenti o artifici giuridici (come l’attuale decreto legge divenuto, da strumento eccezionale, a ordinario mezzo di attuazione dell’indirizzo politico), e lasciando al Parlamento l’ultima parola circa l’approvazione o il rigetto del testo governativo, con una robusta attività di ispezione e controllo sull’Esecutivo, ci troveremo dinanzi a situazioni analoghe se non peggiori di questa.
Ecco perché, nell’anno che si apre, il treno su cui salire dovrà essere quello delle riforme, sperando che conducente, passeggeri e binari lo portino nella destinazione voluta e auspicata da molti. Senza deragliamenti o fermate a richiesta in stazioni di periferia.