di Gabriele Maestri
La giurisprudenza della Corte costituzionale di quest’anno si è aperta senza dubbio con una delle pronunce più attese e più delicate degli ultimi anni: in materia elettorale, peraltro, è difficile che si ripresenti un’occasione di riflessione e confronto dello stesso peso. Anche per questo, la sentenza n. 1 del 2014 merita di essere analizzata a fondo: Ballot analizzerà separatamente le tre questioni cardine – sul premio di maggioranza, sulle liste bloccate e sulla continuità del Parlamento – cercando di valutare ogni implicazione possibile. Si è scelto di sacrificare un quarto punto, in realtà pregiudiziale a tutti gli altri (l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, in base all’ampiezza dell’oggetto del giudizio instaurato da Aldo Bozzi): si tratta di un passaggio fondamentale per i costituzionalisti, ma non lo tratteremo qui solo perché attiene più al procedimento davanti alla Consulta che alla materia strettamente elettorale.
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Che uno dei punti più critici della legge elettorale così come configurata dalla legge n. 270/2005 fosse il premio di maggioranza era chiaro da tempo: se non altro, la Corte aveva invitato a riflettere più volte su quel punto. Lo aveva fatto, per l’esattezza, in occasione di due decisioni sull’ammissibilità di quesiti referendari: la prima volta nel 2008, per i cd. “quesiti Guzzetta-Segni” (ammessi dalla Corte) e la seconda nel 2012, per i “quesiti Morrone-Parisi-Castagnetti-Palumbo”, boccianti invece dai giudici della Consulta. In entrambi i casi, le sentenze – nn. 15 e 16 del 2008 e n. 13 del 2012 – si prendevano la briga di segnalare al Parlamento «l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi».
Nelle due diverse occasioni, la Corte aveva negato di poter dare «un giudizio anticipato di legittimità costituzionale» in sede di vaglio dei quesiti referendari – e la valutazione viene replicata nella prima sentenza del 2014 – salvo poi rivolgere un monito al Parlamento che suonava come una dichiarazione “spuntata” di incostituzionalità. Parte della dottrina aveva criticato l’atteggiamento ambiguo del giudice delle leggi, nel ruolo di chi «vede ma non provvede» (l’espressione è di Marco Croce), denunciando la possibilità di un «grado di distorsione in concreto» inaccettabile, ma rifiutandosi di trarne le conseguenze. In ogni caso, il Parlamento non ha colto l’invito, né dopo il 2008, né dopo il 2012; e, a ben guardare, non ha saputo muoversi nemmeno nell’anno appena finito, dopo che i due presidenti della Corte (prima Franco Gallo e poi Gaetano Silvestri) avevano pubblicamente ribadito che i sospetti di incostituzionalità sul Porcellum, specie sul premio di maggioranza, erano per lo meno tangibili e avrebbero potuto provocare una reazione della Consulta alla prima occasione utile. Cioè la decisione della questione originata dal “ricorso Bozzi”.
Su queste premesse, la Corte ha rilevato che l’assenza della soglia per far scattare il premio di maggioranza è «tale da trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea». Il problema, dunque, sarebbe la distorsione che il meccanismo produrrebbe nella trasformazione dei voti in seggi. Una distorsione teorica, certo, ma anche concreta, visto che tanto nel 2006 quanto nel 2013 a fare la differenza tra i primi e i secondi arrivati sono state poche migliaia di voti: al primo uso del Porcellum la coalizione di Prodi ebbe il premio per un microscarto su quella di Berlusconi, l’anno scorso «Italia. Bene comune» di Bersani ha prevalso sul M5S, che correva da solo però ha avuto più voti del Pd.
Vista la situazione in quest’ottica, ci sarebbero gli elementi per ritenere inaccettabile questa distorsione, perché irragionevole. La cosa sarebbe tanto più grave rileggendo l’articolo 67 Cost., in base al quale le Camere sono «sedi esclusive della “rappresentanza politica nazionale”»: la sentenza sottolinea come da questo “status”dipenda l’affidamento ai rami del Parlamento di «funzioni fondamentali, dotate di “una caratterizzazione tipica ed infungibile”», funzioni che pongono il Parlamento su un piano diverso rispetto alle «altre assemblee rappresentative di enti territoriali».
In Assemblea costituente si era deciso di non “cristallizzare” la scelta di un sistema proporzionale per le Camere – la Corte lo ricorda – lasciando al legislatore la scelta del sistema «più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico»; questo però non toglie che una legge elettorale debba superare lo «scrutinio di proporzionalità e di ragionevolezza». Nota infatti la Consulta che si deve verificare se il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti abbia compresso troppo uno di essi, e se i mezzi usati dal legislatore siano proporzionati rispetto ai fini da perseguire.
La valutazione operata dal giudice delle leggi nella sentenza n. 1 del 2014 è chiara: è legittimo puntare alla formazione di «un’adeguata maggioranza parlamentare» che garantisca stabilità di governo e decisioni rapide, ma questo non può portare a ribaltare «la ratio della formula elettorale prescelta dallo stesso legislatore del 2005». In sostanza, la rappresentatività parlamentare sarebbe troppo compressa, in più in questo modo il voto sarebbe meno «eguale» (come chiede l’art. 48, comma 2 Cost.) e non si riconoscerebbe più una formula di impianto proporzionale, mentre gli elettori si aspetterebbero una distribuzione di seggi più in linea con il loro voto (risposta che la Corte dà guardando anche alla giurisprudenza estera).
Fin qui tutto abbastanza chiaro, anche se ci sono alcune osservazioni da fare. A partire proprio dall’ultimo punto, visto che per più di un politologo – a cominciare da Antonio Agosta, che Ballot ha intervistato alla vigilia della sentenza – il Porcellum non delineava affatto un sistema proporzionale (sia pure corretto con premi e sbarramenti), bensì un sistema maggioritario a ripartizione proporzionale: alla Camera l’Italia, Valle d’Aosta esclusa, sarebbe stata dunque un unico, grande collegio plurinominale, in cui la lista o la coalizione che fosse stata davanti anche solo per un voto si sarebbe beccata il 55% dei seggi. Il premio, per l’appunto. Se si possono ritenere costituzionalmente legittimi i sistemi con formula maggioritaria (che certamente, specie quando i concorrenti sono più di due, producono una forte distorsione), allora ha meno senso parlare di soglia e, soprattutto, non ha proprio senso lamentare un ribaltamento del sistema proporzionale.
È invece giusto e perfettamente condivisibile quello che la Corte sostiene a proposito del ruolo delle Camere e della rappresentatività che devono garantire. Come si è visto, sono gli stessi giudici costituzionali a marcare la differenza tra i rami del Parlamento (che hanno funzioni di indirizzo e controllo del Governo e sono attori principali del procedimento di revisione costituzionale) e le assemblee elettive di comuni, province (per ciò che resta) e regioni. Queste differenze ci sono, è vero, ma una considerazione va fatta: se è troppo compressa la rappresentatività della compagine frutto del Porcellum, cosa si dovrebbe dire del sistema di elezione dei sindaci nei comuni con meno di 15mila abitanti? Un sistema che alla fine dell’unico turno assegna il 66% dei seggi alla lista collegata al candidato sindaco che ottiene anche solo un voto in più. Se le liste sono più di tre, si può vince anche con meno del 40%; le ultime riduzioni del numero dei consiglieri comunali hanno ristretto ulteriormente gli spazi per le forze di minoranza, spesso lasciando fuori un gran numero di liste, anche con percentuali non bassissime. Pur nell’evidente differenza dei ruoli, la compressione della rappresentanza non accettata nelle Camere è ammissibile (con effetti anche più visibili) negli enti locali, oppure la sentenza della Corte deve far riflettere il legislatore anche in questo ambito?
Altre censure della Corte riguardano nello specifico il premio previsto al Senato. Oltre all’assenza della soglia, i giudici criticano la conformazione regionale del meccanismo: la maggioranza a Palazzo Madama, infatti, può essere «il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale», producendo magari maggioranze non coincidenti nelle due Camere, a sostanziale parità di voti. In effetti, è andata così nel 2006 e di nuovo nel 2013.
Ora, a parte il fatto che a chiedere la “regionalizzazione” del premio al Senato (tra le modifiche intervenute via via sul “progetto Calderoli”) era stato il Quirinale, ritenendo che l’originario premio nazionale non avrebbe rispettato dell’art. 57, comma 1 («Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale»), bisognerebbe riflettere un po’ su quella disposizione. Un costituzionalista accorto e apprezzato come Temistocle Martines (maestro, tra l’altro, dell’attuale presidente della Corte Silvestri) definì quella frase come «generica, ambigua, polivalente», frutto di «un compromesso malriuscito ed a fatica raggiunto all’Assemblea costituente». Quella formula ambigua sarebbe stata rispettata da un premio nazionale, magari bastando la previsione di circoscrizioni regionali?
Da ultimo, una riflessione va dedicata non solo a quello che è stato tolto, ma anche a ciò che è rimasto. Già, perché se ha demolito il premio di maggioranza, la Corte non ha toccato uno dei suoi presupposti, cioè la possibilità di formare coalizioni (dovendo poi condividere programmi e l’indicazione del “capo”). Se non c’è più un premio cui aspirare e per cui tutte le forze sono utili, a chi serve coalizzarsi? Ai piccoli partiti, per esempio, visto che con le coalizioni sopravvivono anche le soglie di sbarramento privilegiate, che alla Camera alle forze politiche coalizzate piazzano l’asticella per l’ingresso non al 4%, ma al 2%, dando rappresentanza persino alla “migliore perdente” in ogni coalizione (e nel 2013 i best loser sotto al 2% sono stati addirittura tre). Ai partiti maggiori invece coalizzarsi non conviene proprio, se non per far entrare le forze che sono loro più vicine: meno forze entrano in Parlamento, più seggi possono sperare di ottenere. Se non c’è nessun premio da riscuotere, meglio soli che troppo accompagnati.