di Alessandro Gigliotti
Nella seduta antimeridiana di oggi, il Senato della Repubblica ha respinto a larga maggioranza la richiesta di dimissioni dalla carica parlamentare presentata dalle senatrici Laura Bignami e Maria Mussini, iscritte al gruppo misto ma provenienti dal Movimento 5 Stelle. Come si ricorderà, le due senatrici erano state espulse dal Movimento – e quindi anche dal gruppo parlamentare – a seguito della decisione di rassegnare le dimissioni al Presidente del Senato in segno di disappunto per l’espulsione di altri quattro senatori dal medesimo gruppo, dovuta a profondi contrasti intercorsi al suo interno. In virtù del voto di oggi, le dimissioni sono dunque rientrante e le due senatrici restano a tutti gli effetti componenti del Senato.
Ma perché mai le dimissioni spontanee di un parlamentare devono essere soggette al voto dell’Assemblea? La norma, apparentemente bizzarra, risponde invece ad un principio cardine del diritto parlamentare, per il quale ogni singola assemblea decide in via definitiva sulla propria membership. Questo significa che la Camera è chiamata ad esprimersi con un voto non soltanto nei casi di ineleggibilità, incompatibilità e decadenza, ma anche di fronte a dimissioni spontanee, benché poi nella prassi esistano delle eccezioni, come ad esempio a seguito di dimissioni per incompatibilità; in tali casi, infatti, l’assemblea è solita prendere atto senza procedere a votazione formale. In secondo luogo, sottoporre a votazione le richieste di dimissioni significare tutelare la libertà del singolo parlamentare, che potrebbe essere indotto a rassegnare le dimissioni a seguito di pressioni o minacce. Il voto dell’assemblea, pertanto, assume una valenza di garanzia della libertà nell’esercizio del mandato.
Certamente, la previsione di un voto del plenum rischia, in talune circostanze, di affidare alla forza del numero la decisione su un atto di carattere personale, tanto più se si tiene presente che la votazione sulle dimissioni di un parlamentare si svolge a scrutinio segreto. Infatti, può ben accadere che l’assemblea decida di respingere le dimissioni di un proprio componente per motivi di tattica politica o, comunque, non riconducibili alla funzione garantista di cui si è detto. Più in generale, si tenga presente che, in base ad una norma di correttezza costituzionale, le Camere tendono a respingere in prima battuta le dimissioni dei propri componenti anche quando queste sono rassegnate per motivi di carattere strettamente personale. La medesima norma esige, però, che se l’interessato ripresenta le dimissioni, queste vengano accolte.
Nel caso odierno, quasi tutti i gruppi parlamentari hanno dichiarato di respingere le dimissioni delle due senatrici non soltanto in segno di solidarietà, ma altresì per manifestare il proprio dissenso nei confronti della vicenda che le ho originate. È probabile che la questione si chiuda qui. Qualora però le due senatrici decidessero di insistere nel loro gesto, difficilmente l’Aula di Palazzo Madama potrebbe non tenerne conto. La prerogativa dell’Assemblea sulla propria membership non può trasformarsi in una sorta di camicia di forza, tale da costringere un parlamentare a restare in carica contro la sua volontà. Un conto è tutelare la libertà del mandato parlamentare, ai sensi dell’art. 67 della Costituzione, altra cosa sarebbe invece ipotizzare l’esistenza di un dovere di mantenere una carica che, liberamente, si è deciso di lasciare.