Il Quirinale e le elezioni: un rapporto delicato

di Gabriele Maestri

Napolitano dimissioni mandatoLa previsione, volendo, sarebbe stata fin troppo facile: tutti i telegiornali di oggi – come faranno presumibilmente (oltre che alla connessa frase di Beppe Grillo) i quotidiani maggiori di domani – stanno freneticamente attingendo a sette-parole-sette pronunciate questa mattina dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante lo scambio di auguri con il corpo diplomatico: “l’imminente conclusione del mio mandato presidenziale”. Una frase quasi lasciata scivolare all’interno di un contesto più ampio – quello che nella giurisprudenza costituzionale si definirebbe un obiter dictum – che però non è passato inosservato proprio a nessuno.

In effetti la costruzione complessiva del periodo (in cui si accenna subito prima alla “prossima fine di questo anno 2014”) farebbe addirittura pensare che le dimissioni del capo dello Stato fossero questione non di settimane (quelle che mancano alla fine dell’anno), ma di giorni: in fondo, “prossima” è pur sempre meno urgente di “imminente”. Più realisticamente, bisognerà attendere la conclusione del semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’Unione europea (come lo stesso ufficio stampa del Quirinale aveva chiarito all’inizio di dicembre): la data del passaggio di consegne alla Lettonia è il 13 gennaio, per cui solo dopo quel giorno il Presidente in carica potrebbe compiere l’atto “personalissimo” che metterebbe fine al proprio secondo, breve mandato.

A quel punto si metterà in moto la macchina prevista dall’art. 86 della Costituzione: entro 15 giorni dalle dimissioni spetterà a Laura Boldrini, come presidente della Camera, indire le elezioni del successore di Napolitano (il cui ruolo sarà esercitato temporaneamente, come supplente, dal presidente del Senato Pietro Grasso), convocando in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali.

Inutile negare che la consapevolezza che il nuovo mandato di Giorgio Napolitano non avrebbe coperto l’intero settennato era di tutti gli italiani. Lui stesso aveva precisato dall’inizio, nel suo discorso a Montecitorio, che se si fosse trovato “di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui” aveva cozzato in passato, non avrebbe esitato “a trarne le conseguenze dinanzi al paese”; in seguito aveva ribadito più volte il concetto, chiarendo senza ombra di dubbi che la sua permanenza al Quirinale si sarebbe chiusa ben prima del compimento dei sette anni. Da troppe settimane, tuttavia, interventi assai inappropriati stavano tentando di aprire in deciso anticipo la corsa al Colle, iniziando il “gioco” di proporre nomi col probabile scopo di bruciarli o farli impallinare dagli avversari; voci insistenti volevano ricomprendere la partita per la successione a Napolitano nel famigerato “patto del Nazareno” (a proposito, se è un “atto parlamentare”, come qualcuno sostiene, che numero e che classificazione ha?), quasi dimenticandosi che la sede presidenziale era tutt’altro che vacante e che parlare come se lo fosse era un esercizio di pessimo gusto.Ora, invece, le dimissioni sembrano davvero alle porte. Non si tratta certo di un atto inedito per l’Italia, ma il caso concreto è diverso da tutti i suoi precedenti. Non è certamente assimilabile la vicenda di Antonio Segni, che si dimise sì il 6 dicembre di mezzo secolo fa, ma essenzialmente in seguito alla grave malattia che l’aveva colpito dopo l’ictus di quattro mesi prima. Anche Giovanni Leone lasciò anzitempo il Quirinale (con un anticipo di poco più di sei mesi), ma lo fece in un clima assai diverso da quello che aveva portato alla sua elezione e decisamente polemico, gravido di attacchi legati al caso Lockheed e al pamphlet durissimo (ma finito condannato in ogni grado dai giudici) di Camilla Cederna.Da ultimo, si è dimesso formalmente in anticipo – il 28 aprile 1992 – anche Francesco Cossiga, due mesi prima della scadenza del mandato. Anche lui poco prima (a dicembre del 1991) aveva avuto la sua dose di attacchi pubblici, con la richiesta di messa in stato d’accusa targata soprattutto ex Pci; le dimissioni, poi, erano arrivate a meno di un mese dalle elezioni che avevano sconvolto il panorama politico e avevano dato ottanta parlamentari alla Lega.Anche nel caso di Napolitano, in effetti, bisognerebbe considerare il ruolo non marginale della vicenda “trattativa Stato-mafia”, che per la prima volta ha visto la deposizione in sede penale di un Presidente della Repubblica in carica. E’ evidente però che non è questo l’elemento dominante del quadro. C’è soprattutto un presidente oggettivamente stanco (e non solo per il dato dell’età), che ha accettato di succedere a se stesso per la prima volta nella storia repubblicana, ma con la chiara intenzione di circoscrivere il più possibile questa “eccezione”. Ciò in un quadro politico non confortante, in cui il partito che esprime il capo dell’esecutivo ha percentuali alte, a fronte di un astensionismo da brivido e di una maggioranza di governo eterogenea e destinata a non replicarsi.Soprattutto, Giorgio Napolitano arriverebbe alle dimissioni senza avere ancora visto approvata la riforma elettorale, sollecitata a più riprese e mai ottenuta, né nel precedente mandato, né in quest’anno abbondante di nuova permanenza al Quirinale. E’ toccato alla Corte costituzionale – a costo di alcune forzature nel modo di ragionare – intervenire per demolire alcune parti problematiche della legge del 2005 e per costringere, di fatto, il Parlamento a intervenire. Difficile però che l’iter possa arrivare a compiersi prima che il Quirinale si prepari al passaggio di consegne: se Napolitano volesse attendere l’approvazione dell’Italicum, potrebbe dover allungare la sua permanenza al Colle per vari mesi, per non parlare dei tempi che richiederanno le riforme costituzionali. Per questo, probabilmente, la via delle dimissioni conserva un retrogusto amaro per l’uomo che più di tutti ha operato al Quirinale, non avendo ancora visto la fine del percorso della nuova legge elettorale. Una condizione che, tuttavia, è stata anche la maggiore garanzia contro gli improvvisi desideri di elezioni anticipate sorti qua e là in questi mesi: Napolitano non le avrebbe mai volute, ma l’idea di dover votare con il Consultellum non piaceva proprio a nessuno. Tra i propri dispiaceri lasciati tra gli arazzi del Colle, per lo meno, Giorgio I non dovrà  contare anche lo smacco di un nuovo voto prematuro, con risultato tutto affidato alla sorte.

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