di Vincenzo Iacovissi
Il prossimo 7 maggio si svolgeranno le elezioni per il rinnovo della House of Commons, la camera bassa del glorioso Parlamento di Westminster, assurto, da più di due secoli, a culla del parlamentarismo occidentale nonché a modello per il funzionamento delle forme di governo basate su Esecutivi forti e stabili, perché sorretti da maggioranze omogenee e molto disciplinate al loro interno, in quanto costituite da un solo partito.
Come noto, l’esperienza politico-costituzionale del Regno Unito ha conosciuto, sin dalla Gloriosa rivoluzione di fine Seicento, uno sviluppo plurisecolare lungo una linea di tendenziale bipartizione del sistema politico, imperniata dapprima sulla dinamica Tories e Whigs e, dai primi del Novecento, su quella conservatori-laburisti. In tale contesto, dunque, la funzione di “governo di Sua Maestà” e di opposizione è stata prevalentemente appannaggio dei due principali partiti, Conservative party e Labour party.
Le elezioni del 2010 hanno segnato una prima inversione di tendenza, grazie alla notevole affermazione della tradizione terza forza del sistema, il partito liberaldemocratico, che ha impedito ai conservatori di conquistare la maggioranza dei seggi nei Comuni, determinando così la formazione del governo di coalizione Cameron-Clegg, sorretto da un accordo politico-parlamentare tra conservatori e, appunto, liberaldemocratici.
Adesso le nuove elezioni rischiano di produrre un esito ancor più ignoto per la storia inglese. Vediamo brevemente perché. Dai sondaggi finora disponibili parrebbe impossibile, per qualunque partito, vincere in un numero di collegi uninominali sufficiente per ottenere una propria maggioranza assoluta nei Comuni, e ciò in ragione della stimata forte ascesa di forze, come gli euroscettici dell’UKIP o soprattutto lo Scottisch National Party, che potrebbero contribuire a scardinare l’equilibrio bipartitico, consolidando la tendenza in atto ed emersa anche nelle elezioni amministrative ed europee.
Qualora giovedì notte le urne restituissero un esito conforme alle previsioni, allora, potremmo considerare ormai “rottamato” il bipartitismo all’inglese, e con esso il modello Westminster fatto di linearità ed efficienza nella formazione dei governi. Nondimeno, un assetto multipartitico restituirebbe al Parlamento di Londra quella centralità perduta dalla fine della seconda guerra mondiale, contrassegnata dalla progressiva espansione del ruolo dell’Esecutivo sia nella espressione dell’indirizzo politico che nella stessa produzione legislativa.
Ecco perché queste elezioni presentano un interesse particolare ed affascinante; per verificare se uno dei sistemi costituzionali più elastici del mondo democratico – con dati macroenomici nettamente migliori della media UE – sarà in grado di adattarsi ai profondi mutamenti della politica e della rappresentanza, e con quali ripercussioni sui soggetti politici e sul sistema elettorale maggioritario a turno unico di collegio, a ragione ritenuto da molti il motore di una macchina perfettamente lubrificata come quella di Westminster.
Anche le macchine, però, possono incepparsi, e proprio nel caso di un eventuale hung parliament capiremo se l’ingranaggio potrà funzionare ancora seppur nuovi innesti oppure se dovrà essere archiviato nei libri storia. Presto lo sapremo.