di Alessandro Gigliotti
Il voto di ieri sulla richiesta di arresto del sen. Azzollini ha suscitato, com’era prevedibile, un fiume di polemiche all’interno dell’opinione pubblica, che ha prontamente accusato la classe politica di aver letteralmente “salvato” un proprio esponente più per ragioni di mero calcolo politico che per motivi attinenti al merito dell’inchiesta.
Senza entrare nella vicenda, e quindi senza formulare alcuna considerazione sulla posizione processuale del sen. Azzollini, occorre premettere che il Senato della Repubblica è stato chiamato a pronunciarsi esclusivamente sulla richiesta, avanzata dal giudice per le indagini preliminari, di sottoporre l’indagato alla misura cautelare degli arresti domiciliari. Detta richiesta è basata sul presupposto che Azzollini, accusato di vari reati tra cui associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta e induzione indebita a dare o promettere utilità, potrebbe reiterare il reato. Non un voto, quindi, sulla colpevolezza o meno dell’indagato, ma solamente sulla richiesta di carcerazione preventiva, nella forma degli arresti domiciliari, nei confronti della quale la Costituzione prevede che si esprima la Camera di appartenenza.
Tuttavia, da più parti ci si chiede perché mai un parlamentare debba essere tutelato da un provvedimento cautelare disposto dalla magistratura. E, soprattutto, per quale ragione i politici debbano godere di privilegi non ammessi per la generalità dei cittadini che, secondo questa chiave di lettura, creano un evidente vulnus al principio di eguaglianza, cardine di ogni ordinamento che si voglia definire democratico.
Orbene, va osservato che la ratio dell’autorizzazione parlamentare nei confronti dei provvedimenti restrittivi della libertà personale risiede nell’esigenza, avvertita dal costituente, di realizzare un equilibrio tra i poteri, alla luce della separazione teorizzata, in tempi lontani, da Locke e Montesquieu. Alle origini, le immunità parlamentari – espressione con cui si allude, tra l’altro, all’autorizzazione a procedere, ormai abolita in Italia, nonché alle autorizzazioni all’arresto e agli altri atti investigativi – erano funzionali a tutelare il libero esercizio del mandato parlamentare dai possibili arbitri del potere esecutivo, cui il potere giudiziario risultava sostanzialmente asservito. Esercizio che sarebbe stato libero solo in apparenza se un giudice, con una richiesta di arresto, avesse avuto la possibilità di mettere fuori gioco un parlamentare “scomodo”. Oggidì la magistratura è certamente indipendente dagli altri poteri dello Stato, ma ciò non significa che siano impossibili gli arbitri e le intromissioni: per tale ragione è opportuno che il principio di eguaglianza, che di per sé non tollera privilegi e discriminazioni, venga bilanciato con altri principi costituzionali di non minore importanza, quale appunto la separazione dei poteri.
A tal fine, l’art. 68 della Costituzione prevede che i provvedimenti restrittivi della libertà personale che interessino un membro del Parlamento – arresto, intercettazioni, perquisizioni – siano preventivamente autorizzati dalla Camera di appartenenza. Non si tratta di un privilegio, cioè di un vantaggio attribuito ad un determinato individuo, ma di una prerogativa che tutela l’indipendenza e la funzionalità dell’organo costituzionale. In tali casi, in particolare, l’assemblea è infatti chiamata a valutare l’esistenza del fumus persecutionis, espressione con cui ci si riferisce all’intento meramente persecutorio da parte della magistratura nei confronti del parlamentare. In realtà, nei casi in cui si ragiona di una richiesta di arresto, l’assemblea è tenuta ad una considerazione ulteriore: l’arresto di un deputato o di un senatore ne impedisce, di fatto, la partecipazione alle attività parlamentari e questo si ripercuote inevitabilmente sugli equilibri politici. La ratio dell’autorizzazione, in altri termini, è anche quella di evitare che un’inchiesta possa condurre, ad esempio, alla caduta del governo in carica a motivo dell’arresto di un certo numero di parlamentari su cui si regge la maggioranza.
Ciò non significa affatto che i membri del Parlamento siano immuni dalla giurisdizione: l’autorizzazione a procedere in sede penale, com’è noto, è stata abolita nel 1993 e pertanto nessun voto è richiesto per sottoporre un parlamentare a procedimento penale. Inoltre, l’autorizzazione non è necessaria né in caso di flagranza di reato, né a seguito di condanna in via definitiva. Pertanto, un parlamentare colto sul fatto, nell’ipotesi in cui sia previsto l’arresto, è soggetto alla misura restrittiva senza necessità di autorizzazione, e così avviene anche nel caso di sentenza definitiva di condanna.
In conclusione, è bene che si lasci alla magistratura il compito di giudicare sulla condotta del sen. Azzollini. Ma è anche opportuno che si rispetti la valutazione del Senato sulla richiesta di custodia cautelare, quale che essa sia. Si tratta di una valutazione estremamente delicata perché attiene al problematico rapporto tra politica e magistratura, ma che proprio in quanto tale non può che essere affidata alla discrezionalità dell’organo costituzionale interessato.