di Gabriele Maestri

Di certo, nella sua dichiarazione in conferenza stampa, Grossi (che non è strettamente un costituzionalista, ma da storico del diritto conosce a fondo il sistema giuridico) ha pesato le parole, dicendo “credo si debba”, non “c’è l’obbligo di partecipare al voto”. Questa riflessione suggerisce l’opportunità di precisare alcune questioni, troppo spesso analizzate in fretta o con superficialità, da chi con il diritto costituzionale ha scarsa oppure occasionale frequentazione.
Punto di partenza dev’essere l’art. 48, comma 2 della Costituzione, in cui si parla del voto come “dovere civico” del cittadino. L’espressione è volutamente elastica: all’inizio si era parlato di “dovere civico e morale”, poi il secondo aggettivo è caduto (un po’ perché il termine aveva implicazioni delicate, un po’ perché si temeva che fosse difficile trasformare un dovere morale in dovere giuridico); Costantino Mortati in Assemblea costituente preferiva parlare di “dovere politico” e forse il testo sarebbe stato più chiaro. Il fatto è che, non essendoci stato completo accordo in Assemblea costituente sull’esigibilità del voto, si voleva lasciare libero il Parlamento di riempire di contenuti l’espressione “dovere civico”, magari con norme apposite contenute nella legge elettorale. Il d.lgs. n. 534/1993 ha abrogato la cd. “fedina elettorale” (che pure valeva solo per le elezioni politiche, non per i referendum), ossia l’inserimento dell’elettore astenutosi e non giustificatosi con il sindaco in un elenco speciale e la conseguenze menzione “non ha votato” nel certificato di buona condotta; con quell’intervento abrogativo, nel nostro ordinamento è sparita ogni forma, sia pure minima, di sanzione per chi sceglie di non votare. Siamo dunque di fronte a un dovere privo di sanzione, esattamente come il dovere di lavorare ex art. 4, comma 2 della Costituzione.
Non è conseguenza del “dovere civico” nemmeno la previsione del quorum sulla partecipazione degli elettori al referendum abrogativo: il motivo, casomai, era il non voler consentire l’abrogazione di una legge con il favore di meno del 25% del corpo elettorale (quota che corrisponderebbe, in ipotesi, alla metà più uno dei votanti, quando questi fossero a loro volta la metà più uno degli aventi diritto). Una situazione diversa, per dire, riguarda il referendum legato alla revisione costituzionale: lì si ritiene sufficiente il “sì” di oltre la metà dei partecipanti al voto, anche se si trattasse di meno del 25% degli elettori, perché alla base c’è un testo approvato da entrambe le Camere almeno con la maggioranza assoluta, con un accordo politico più ampio rispetto alle leggi ordinarie. Il fatto che esista un quorum di questo tipo rende di per sé legittimo il comportamento di chi si astiene dal voto, anche perché ad esso sono legate conseguenze giuridiche diverse rispetto al “no”: se un quesito è respinto dalla maggioranza dei votanti, la legge non è sottoponibile a nuovo referendum per 5 anni; se un quesito non raggiunge il quorum, si possono tranquillamente richiedere nuove consultazioni. Ciò detto, pur essendo legittima (o, comunque, non sanzionata), l’astensione non è in alcun modo incoraggiata dalla Costituzione o dalla legge: nelle tribune referendarie gli spazi sono per il “sì” e per il “no”, non certo per chi invita all’astensione, scegliendo di non scegliere.
A questo proposito, si tira fuori per l’ennesima volta l’articolo 98 del testo unico dell’elezione della Camera – che si applica anche ai referendum, per espressa indicazione della legge n. 352/1970 – che punisce “il pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare” che “abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse”, si adopera a indurre gli elettori all’astensione. Basta una lettura minimamente accorta per capire che la disposizione è evidentemente inapplicabile agli eletti in Parlamento: l’art. 68, comma 1 della Costituzione, per cui “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse […] nell’esercizio delle loro funzioni”, esclude alla radice l’applicabilità della disposizione penale; i comportamenti di altri esponenti politici, non coperti dallo scudo dell’insindacabilità parlamentare, rileverebbero solo qualora questi agissero come pubblici ufficiali o nelle altre vesti sopra ricordate.
Bisogna peraltro riflettere, almeno per un momento, sul fatto che attualmente il capo del Governo non è un parlamentare, per cui secondo qualcuno potrebbe essere chiamato a rispondere delle sue posizioni pro astensione, rivestendo egli il ruolo di pubblico ufficiale; si deve però ricordare anche che il Presidente del Consiglio è un pubblico ufficiale solo “nell’esercizio delle sue funzioni”, nel quale sembra difficile far rientrare anche una qualunque dichiarazione, anche rilasciata a margine di un evento ufficiale. Certo, una sua responsabilità non si può escludere a priori: se, di concerto col ministro dell’interno, il capo del Governo disponesse di allontanare le persone dai seggi per ragioni di sicurezza (dunque abusando di un proprio potere), sarebbe incriminabile; una semplice dichiarazione, a prescindere dalla risonanza che i media le danno e anche qualora la si ritenga (legittimamente) inopportuna o civicamente non virtuosa, non sembra invece costituire reato. Si è di fronte, in ogni caso, a una fattispecie incriminatrice obsoleta, nata in un contesto storico ben preciso e da tempo inapplicata (si discusse a lungo nel 2005 se la condotta dei sacerdoti che nel 2005 invitavano, su indicazione dei loro vescovi, a non votare per i referendum sulla procreazione medicalmente assistita integrasse il reato: il caso era più vicino alla previsione di legge rispetto a quello attuale, ma non risultano notizie di procedimenti penali).
Da ultimo, i quesiti dovrebbero essere valutati per quello che sono, senza chiamare in causa argomenti estranei all’oggetto del voto. Era già accaduto – purtroppo – con i referendum del 2011 sui servizi pubblici locali, veicolati come “referendum sull’acqua pubblica”: quella volta i cittadini dovevano votare “sì” o “no” all’abrogazione di una norma che di fatto rendeva quasi impossibile affidare la gestione di quei servizi (compresi quelli relativi all’acqua) a società interamente pubbliche; la vittoria dei “sì” fu interpretata da alcuni come la richiesta dei cittadini di avere l’acqua sempre e solo pubblica, ma questo ai cittadini non è mai stato chiesto (e lo strumento del referendum non era nemmeno adatto allo scopo). Il quesito sulle concessioni per l’estrazione di idrocarburi è piuttosto complesso (e, nei mesi scorsi, non ha avuto un battage pubblicitario enorme, anche perché a chiederlo non sono stati i cittadini, ma le regioni) e le conseguenze dovrebbero essere valutate a fondo, per scegliere come votare. Semplificare le cose difficili è giusto e comprensibile: è invece ingiusto inserire nelle ragioni del “sì”, del “no” o dell’astensione questioni che non c’entrano nulla col quesito, come l’investimento sulle fonti rinnovabili o il problema dei posti di lavoro che si perderebbero in caso di mancata proroga del permesso di estrarre idrocarburi. Un po’ di buon senso in più, probabilmente, farebbe bene a tutti.
* * *
Per approfondire, si può leggere il contributo di Andrea Morrone E’ legittimo astenersi e invitare a disertare le urne? (Il Riformista, 25 maggio 2005) o, più in breve, l’articolo di Piotr Zygulski Se non votare è lecito, perché indurre all’astensione è reato? (Termometro Politico, 14 aprile 2016)