Il referendum popolare sulla riforma costituzionale del Governo Renzi è ormai alle porte. La campagna referendaria è stata lunga, combattuta, ricca di tensioni, vissuta da ambo le parti come un confronto che va ben al di là del merito delle innovazioni in essa contenute e, piuttosto, come uno scontro tra due modi antitetici di vedere la politica e le istituzioni.
Ballot, come sempre, non prende posizione e si limita a rilevare che il dibattito è stato spesso incentrato su questioni che con la riforma hanno poca – se non addirittura nessuna – attinenza. D’altra parte, tutto l’iter di approvazione è stato caratterizzato da un tasso di conflittualità elevato; la riforma è stata politicizzata sin dal principio, forse anche troppo, e le divisioni che si registrano in queste settimane ne sono una chiara manifestazione.
Tuttavia, ciò su cui siamo chiamati a votare domenica non è né il Governo in carica, né un progetto politico più o meno alternativo: si voterà sulla riforma della Costituzione.
Per tale ragione, nel tentativo di riportare l’attenzione sui veri temi oggetto della consultazione, Ballot propone ai suoi lettori una piccola scheda, breve e sintetica, che riassume le principali innovazioni contenute nel testo di riforma con l’obiettivo di contribuire all’informazione, senza la quale non è possibile maturare un’opinione ed esprimere un voto libero e consapevole.
A tutti voi, buona lettura e buon voto.
Dal bicameralismo perfetto a quello differenziato
di Vincenzo Iacovissi
La legge di revisione costituzionale interviene sulla struttura del Parlamento italiano, modificando ruolo e funzioni delle sue articolazioni, Camera e Senato, passando da un assetto di tipo bicamerale perfetto ad uno differenziato.
In particolare, la riforma supera la situazione attuale, che vede entrambi i rami sullo stesso piano sia dal punto di vista dell’esercizio della funzione legislativa, sia su quello dell’indirizzo e controllo nei riguardi del Governo, nonché sul complesso delle competenze (conoscitive, ispettive, consultive) che la Costituzione assegna all’organo Parlamento.
Nel disegno riformatore, pertanto, viene previsto un ramo, la Camera dei deputati, titolare esclusivo del rapporto fiduciario con il Governo e soggetto prevalente di legislazione, cui si affianca l’altro ramo, il Senato della Repubblica, che diviene sede di rappresentanza delle istituzioni territoriali e al quale competono la compartecipazione alla funzione legislativa con diversi gradi di intervento rispetto alla Camera, funzioni di raccordo tra le istituzioni statali, locali ed europee, nonché un ruolo referente rispetto alle nomine di competenza del Governo.
Questa diversa articolazione delle attribuzioni si accompagna ad una differente modalità di elezione tra Camera e Senato: per la prima viene confermato il suffragio diretto da parte dei cittadini, mentre per il secondo, composto da 95 membri, si prevede una procedura di elezione di secondo grado da parte dei Consigli regionali. Fanno quindi parte del nuovo Senato 74 consiglieri regionali, 21 sindaci (uno per regione e provincia autonoma), oltre a 5 membri che potranno essere scelti dal Presidente della Repubblica tra personalità eminenti in campo sociale, scientifico, artistico e letterario. L’elezione c.d. “indiretta” da parte dei Consigli regionali dovrà però risultare conforme alla volontà espressa dal corpo elettorale al momento del rinnovo delle rispettive assemblee regionali, e di conseguenza la scelta dei consiglieri chiamati a ricoprire anche la carica di senatore sarà in qualche modo collegata alla volontà popolare. La durata in carica dei senatori è parametrata su quella dei Consigli regionali, mentre per i membri di nomina presidenziale il mandato è di sette anni e non rinnovabile.
Sulla base di tale nuovo assetto, il procedimento legislativo non sarà più caratterizzato dal principio della “parità” tra le due Camere circa l’approvazione delle leggi, bensì su quello della “prevalenza” della Camera rispetto al Senato, con possibilità per Palazzo Madama di esercitare un potere di richiamo nei confronti delle proposte di legge trasmesse da Montecitorio, che potrà essere comunque superato dalla Camera stessa nella maggior parte delle materie. Resteranno sottoposte ad una procedura “bicamerale” solo alcune leggi, quelle costituzionali, quelle relative alle minoranze linguistiche, quelle di carattere ordinamentale e regionale, oltre, infine, alle norme relative alla partecipazione dell’Italia alla formazione ed attuazione delle politiche dell’Unione europea.
In sintesi, da due Camere speculari si passa ad un sistema basato su una Camera di rappresentanza politica e nazionale, che accorda e revoca la fiducia al Governo e legifera in via principale, e un Senato di rappresentanza istituzionale e territoriale, che compartecipa alla funzione legislativa ed è estraneo al circuito fiduciario.
Un bicameralismo, appunto, “differenziato”.
Senato, nuove modalità di elezione
di Gabriele Maestri
Una delle innovazioni più note che la riforma costituzionale si propone di introdurre è la trasformazione del Senato in un organo non più direttamente elettivo, per lo meno non nelle forme in cui lo si è conosciuto finora in Italia.
Il testo uscito dall’iter parlamentare ha delineato il Senato come organo che «rappresenta le istituzioni territoriali» (art. 55, comma 5): per questo, il legislatore ha voluto che a eleggere i senatori fossero «i Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano» (art. 57, comma 2). Ciò varrebbe tanto per i 21 sindaci che Regioni e Province autonome sarebbero chiamate a eleggere (uno per ciascuna), quanto per i 74 membri da individuare tra i componenti d’ogni consiglio (regionale o di Provincia autonoma), in proporzione alla popolazione di ciascun territorio. Il testo garantisce rappresentanza pure agli enti meno popolosi: stando all’ultimo censimento, si andrebbe dai 2 senatori (un consigliere e un sindaco) delle Province di Trento e Bolzano e delle 8 Regioni più piccole, fino ai 14 della Lombardia (13 consiglieri e un sindaco).
La riforma prevede poi che il Senato non sia più eletto in un’unica soluzione, ma di fatto subisca un rinnovo parziale progressivo. Le norme proposte, infatti, fanno coincidere la durata del mandato dei senatori «con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti» (art. 57, comma 6): i consiglieri regionali/provinciali e i sindaci eletti da ciascuna Regione, dunque, terminerebbero il loro mandato da senatori con lo scioglimento del consiglio, anticipato o per scadenza naturale (ma i consigli dovrebbero anche sostituire i consiglieri e i sindaci eletti senatori, ma il cui mandato scade prima dello scioglimento del consiglio regionale/provinciale).
La futura disciplina elettorale del Senato dovrebbe essere dettata con legge “bicamerale”, pertanto sottoposta all’esame paritario di entrambi i rami del Parlamento. Proprio quella legge avrebbe il compito più delicato: tradurre in concreto la previsione inserita durante il percorso parlamentare della riforma, in base alla quale i senatori verrebbero eletti dai Consigli regionali o di Provincia autonoma «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi» (art. 57, comma 6), precisando peraltro che «I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio» (art. 57, comma 7). La disposizione era stata inserita in uno dei passaggi parlamentari per cercare – a dispetto dell’elezione di secondo grado – di dare un pur minimo valore alla volontà degli elettori.
La formula, frutto di un compromesso, è sufficientemente indeterminata e consente l’adozione di varie soluzioni di diversa natura: i consiglieri regionali potrebbero semplicemente votare i nomi dei senatori, dovendo rispettare solo le proporzioni tra i vari gruppi; in Senato potrebbero andare i consiglieri più votati (in proporzione alla consistenza dei gruppi consiliari); le liste potrebbero far stampare sulla scheda l’elenco dei loro candidati al Senato (un listino “bloccato e a scorrimento”), in modo che questi diventino senatori nell’ordine predeterminato, a patto che riescano a farsi eleggere in Consiglio. Da mesi sul tavolo c’è una proposta, a prima firma dei senatori Pd Vannino Chiti e Federico Fornaro, in base alla quale il giorno delle elezioni regionali si voterebbe, su due schede diverse, tanto per il presidente e il consiglio regionali, quanto per il candidato di collegio destinato al Senato, collegato a una lista regionale: prima si determinerebbe il numero di seggi senatoriali spettanti a ciascuna lista, per poi assegnarli ai candidati meglio piazzati di ciascuna lista, un risultato che i Consigli regionali/provinciali dovrebbero recepire senza possibilità di intervenire.
Nessuna di queste proposte, tuttavia, fa parte della riforma su cui si voterà il 4 dicembre: se il nuovo testo sarà confermato, certamente le Camere dovranno regolare quanto prima l’accesso al Senato, anche per capire davvero “che tipo di Senato” opererà sulla scena pubblica e politica.
Tornando al testo della revisione costituzionale, vi si prevede che tanto la legge elettorale della Camera, quanto quella relativa al Senato promuovano l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza; le stesse leggi elettorali possono essere sottoposte, entro dieci giorni dall’approvazione della legge, al giudizio preventivo della Corte costituzionale su iniziativa di almeno un quarto dei deputati o di almeno un terzo dei senatori.
Il nuovo procedimento legislativo
di Alessandro Gigliotti
Dal superamento del bicameralismo paritario, vero fulcro del disegno di legge di riforma costituzionale, scaturiscono diverse conseguenze: in primis, un nuovo procedimento per la formazione delle leggi.
Occorre premettere, a tal proposito, che la riforma del bicameralismo risponde all’esigenza di svincolare il Governo dal rapporto fiduciario con il Senato, in modo da superare il regime della doppia fiducia che rappresenta un unicum nel panorama costituzionalistico mondiale. Dal momento, però, che il Senato non sarà più una camera politica, strettamente intesa, e che il suo rinnovo non sarà più concomitante con la Camera, ma legato a quello dei Consigli regionali, ne consegue che la maggioranza presso l’Assemblea di Palazzo Madama potrebbe non essere coincidente con quella che, a Montecitorio, sostiene il Governo. Il procedimento legislativo paritario, così come lo conosciamo oggi, non sarebbe pertanto adatto al nuovo modello, salvo per alcune materie, in quanto il potere di blocco in capo al Senato risulterebbe certamente eccessivo.
Il nuovo art. 70 stabilisce, infatti, che il procedimento bicamerale paritario, per il quale le due Camere devono approvare un testo di legge nella medesima formulazione, si applica esclusivamente ad alcune tipologie di leggi espressamente elencate: si tratta, nel dettaglio, delle leggi costituzionali, delle leggi di attuazione di disposizioni in materia di minoranze linguistiche, in materia di referendum, di ordinamento degli enti locali, di ineleggibilità e incompatibilità con la carica di senatore, di autorizzazione alla ratifica di Trattati Ue, di definizione delle forme e dei termini della partecipazione dell’Italia alla formazione ed all’attuazione delle norme europee, di sistema per l’elezione del Senato. Sono bicamerali paritarie anche la legge contenente i principi per l’elezione del Consigli regionali ed altre leggi attinenti all’autonomia regionale.
Tutte le altre leggi, invece, vengono approvate dalla Camera dei deputati con il concorso del Senato, nelle modalità dettate dallo stesso art. 70. In particolare, l’iter parte alla Camera, dove il testo di legge viene esaminato seguendo il consueto procedimento (commissione-aula); una volta approvato, il disegno di legge è trasmesso al Senato, che può decidere di esaminarlo entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei propri componenti, ed ha poi trenta giorni di tempo per proporre modifiche, su cui poi la Camera si pronuncia in via definitiva. Quindi, il procedimento prevede tre distinti passaggi, dei quali uno assume carattere necessario e gli altri due meramente eventuale. Per tale ragione lo si può definire procedimento bicamerale asimmetrico.
Per alcune tipologie di leggi, peraltro, il procedimento reca alcune sensibili variazioni: nel caso delle leggi di bilancio, il Senato è tenuto ad esaminare il disegno di legge trasmesso dalla Camera e può proporre emendamenti entro 15 giorni dalla trasmissione. Nel caso, invece, delle leggi statali in materie di competenza regionale, in applicazione della cosiddetta clausola di supremazia, il Senato è tenuto ad esaminare il testo entro 10 giorni e gli emendamenti proposti con la maggioranza assoluta possono essere superati dalla Camera solo con una deliberazione finale adottata con la medesima maggioranza.
Da evidenziare, peraltro, che l’art. 72 introduce un nuovo istituto, definito “voto a data certa”, in base al quale il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di iscrivere un disegno di legge con priorità all’ordine del giorno, in quanto essenziale per l’attuazione del programma di governo. Qualora la Camera lo disponga, il disegno di legge deve essere posto in votazione finale entro 70 giorni dalla data della deliberazione di priorità, prorogabili per un massimo di ulteriori di 15 giorni. Si tratta di un istituto che permette al Governo di avere una efficace via preferenziale per i disegni di legge maggiormente significativi senza dover ricorrere alla decretazione d’urgenza, secondo una prassi ormai più che consolidata (ancorché poco conforme allo spirito, se non addirittura alla lettera, dell’art. 77). Si consideri, infine, che il nuovo testo pone vincoli più stringenti per l’adozione dei decreti legge, costituzionalizzando i limiti previsti nella legge n. 400 del 1988 e quelli desumibili dalla giurisprudenza della Corte costituzionale: in particolare, i decreti dovranno recare misure di immediata applicazione, di contenuto specifico ed omogeneo e corrispondente al titolo; nella fase di conversione, non sarà possibile approvare disposizioni estranee all’oggetto ed alle finalità del decreto.
Gli istituti di partecipazione popolare, tra ritocchi e novità
di Gabriele Maestri
La riforma costituzionale interviene pure sugli istituti di partecipazione popolare, in particolare su quelli che permettono ai cittadini di presentare in forma collettiva proposte di legge (per proporre alle Camere temi su cui legiferare) o richieste di referendum (per eliminare dall’ordinamento norme non gradite). Si tratta di due strumenti che da tempo mostrano limiti: le proposte di legge popolari si bloccavano ogni volta nella “palude” del Parlamento e gli elettori hanno mostrato sempre maggiore disaffezione verso lo strumento referendario (forse persino abusato), al punto che spesso non si è riusciti a raggiungere il quorum per la sua validità o, a monte, nemmeno a raccogliere le firme necessarie.
Per quanto riguarda l’iniziativa legislativa popolare, la riforma prevede un innalzamento sensibile del numero di firme necessarie (da 50mila a 150mila); il nuovo testo dell’art. 71 Cost., peraltro, prescriverebbe che la discussione e la deliberazione conclusiva su quelle proposte di legge «siano garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari».
L’intervento sulle firme innalza in modo significativo l’asticella, anche se superarla non è impossibile: gli elettori, in settant’anni, sono quasi raddoppiati e oggi ci sono più possibilità per autenticare le firme rispetto al passato. Contropartita del più alto numero di sottoscrizioni sarebbe una discussione (effettiva) nelle aule parlamentari in tempi certi su istanze tradotte in proposta di legge da un numero consistente di cittadini. Si tratta di un rafforzamento della considerazione di questo istituto, reso tuttavia “spuntato” dalla scelta del legislatore di non dettare qualche regola più precisa per l’istituto: la disciplina di tempi, forme e limiti della discussione è stata interamente delegata ai regolamenti parlamentari, dunque alle stesse Camere che finora non hanno tenuto conto delle istanze popolari.
Quanto ai cambiamenti in tema di referendum, rileva innanzitutto il “nuovo” referendum abrogativo «a geometria variabile» (parole di Pasquale Costanzo). In base al testo modificato dell’art. 75, accanto all’attuale ipotesi “normale” (raccolta di 500mila firme e quorum della metà più uno degli aventi diritto al voto da superare), si avrebbe un percorso “rinforzato” da attivare con la raccolta di almeno 800mila firme da parte dei promotori: in quel caso, la consultazione sarebbe valida se andasse al voto almeno la metà dei votanti alle ultime elezioni della Camera.
Dovrebbero essere dunque i cittadini e i promotori a decidere l’altezza dell’asticella: con l’impegno consueto nella raccolta firme, servirebbe uno sforzo maggiore di partecipazione al referendum (dovendo votare un elettore su due); con un impegno maggiore sulle sottoscrizioni, servirebbe meno sforzo ai seggi. La permanenza della via “tradizionale” al referendum non consente di parlare di “controriforma”; quanto al nuovo percorso, oggettivamente è aggravato nella prima fase, anche se di fatto ristabilisce il rapporto firmatari-elettori delle origini (800mila elettori sono l’1,70% dei 46,9 milioni del 2013; 500mila sottoscrizioni, nel 1948, erano l’1,72% dei 29 milioni di elettori di allora), e in più rende più difficile non raggiungere il quorum (stando ai dati del 2013, invece che 23,5 milioni di votanti, ne basterebbero 17,6).
La riforma non interviene sui referendum territoriali su quelli confermativi di revisione costituzionale; in compenso, all’art. 71 si aggiunge che “al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione». Si tratta di una novità per la nostra Costituzione, di nuove occasioni di partecipazione di tutti i cittadini, come singoli e (ma è presto per capire cosa significhi) membri di «formazioni sociali».
Il nuovo testo permetterebbe di indire referendum propositivi (per suggerire temi di cui Parlamento e Governo dovrebbero occuparsi, senza essere un doppione dell’iniziativa legislativa popolare) e d’indirizzo (per permettere a chi governa di verificare, tra il corpo elettorale, il consenso su posizioni e progetti specifici): si tratterebbe, tuttavia, di strumenti solo consultivi e, per giunta, indisponibili prima di un doppio intervento del Parlamento, prima con legge costituzionale (per definirne meglio il funzionamento), poi con legge bicamerale (per attuare nel dettaglio le regole prima stabilite).
Il nuovo Titolo V
di Alessandro Gigliotti
Altro tema di grande rilievo è la riforma del Titolo V, quello relativo alle autonomie degli enti territoriali minori, già oggetto di una profonda rivisitazione tra il 1999 ed il 2001. In via preliminare, occorre sottolineare che la legge costituzionale sopprime le Province come enti territoriali dotati di autonomia riconosciuta dalla Costituzione, ponendo a conclusione un processo che già da qualche anno è stato indirizzato nel senso di depotenziare tale livello di governo in vista di una sua definitiva cancellazione. L’obiettivo non è soltanto quello di produrre un risparmio nei conti pubblici, ma anche quello di semplificare l’ordinamento degli enti locali. A medesima esigenza, d’altra parte, risponde la soppressione del Cnel, organo di consulenza delle Camere e del Governo in campo economico e sociale il cui apporto alla vita delle istituzioni è stato nel complesso trascurabile.
Dal punto di vista del regionalismo, invece, giova ricordare che, a seguito della ridefinizione delle competenze regionali in materia legislativa operata nel 2001, si è aperto un esteso conflitto tra Stato e Regioni che ha reso necessario un massiccio intervento chiarificatore della Corte costituzionale. Quest’ultima, subissata di ricorsi in via principale, è stata quindi costretta a risolvere i numerosi problemi interpretativi che il nuovo testo aveva prodotto, giungendo quasi a svolgere un’attività “pretoria” sul testo costituzionale.
Sinteticamente, nel testo originario del 1947 l’art. 117 si limitava ad individuare una serie di materie affidate alla potestà legislativa regionale di tipo concorrente, mentre le altre erano di competenza esclusiva dello Stato. A seguito della riforma del 2001, il criterio di riparto è stato rovesciato: la Costituzione elenca ora le materie di potestà legislativa esclusiva statale, quelle di potestà regionale concorrente, precisando infine che le materie non espressamente affidate allo Stato sono di competenza regionale: una competenza apparentemente piena, ma che nella realtà non assume tale carattere tanto da essere definita potestà legislativa residuale.
Con l’evidente obiettivo di ridurre il contenzioso e semplificare il riparto di competenze, la riforma costituzionale in corso trasforma ancora una volta l’art. 117, abolendo tout court la potestà legislativa concorrente e stilando due distinti elenchi: uno per le materie di competenza statale, l’altro per quelle di competenza regionale. Benché si specifichi ancora una volta che le materie non espressamente assegnate allo Stato sono affidate alle Regioni, l’art. 117 introduce – o, per alcuni versi, reintroduce – la cosiddetta clausola di supremazia, in base alla quale lo Stato può legiferare anche nelle materie di competenza regionale, allorché lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero dell’interesse nazionale.
Rispetto al sistema attuale, il nuovo art. 117 riporta allo Stato molte delle materie assegnate alla potestà regionale concorrente, mentre altre vengono trasferite in via esclusiva alle Regioni. Si è così sfruttata l’occasione per centralizzare alcune materie che si prestano ad una disciplina nazionale, come ad esempio il coordinamento della finanza pubblica, la tutela della salute, le politiche sociali, l’istruzione, le politiche attive per il lavoro, il commercio con l’estero, l’energia e le grandi infrastrutture strategiche.
In sostanza, la riforma punta a superare la conflittualità tra i diversi livelli di governo attraverso due diversi strumenti: da un lato, la semplificazione del riparto di competenze, con l’abolizione della potestà legislativa concorrente; dall’altro, attraverso la creazione di una Camera di rappresentanza delle istituzioni regionali, per mezzo della quale le Regioni possono far valere le proprie posizioni nella fase di approvazione delle leggi, disinnescando a monte i potenziali conflitti.