di Gabriele Maestri
Dalle ore 9 e 30 di questa mattina si tiene presso Palazzo della Consulta l’udienza pubblica della Corte costituzionale relativa ai cinque giudizi, via via riuniti, di legittimità costituzionale della legge elettorale attualmente vigente ed efficace per la Camera dei deputati. Si tratta della legge n. 52/2015, giornalisticamente nota come Italicum e pensata per essere operativa dopo l’entrata in vigore della riforma della Parte II della Costituzione: detta riforma non ha mai prodotto effetti, vista la vittoria del “No” al referendum confermativo dello scorso 4 dicembre 2016, ma la legge elettorale è rimasta lì ed è applicabile, per lo meno a Montecitorio: per il Senato, infatti, si dovrebbe applicare ciò che è rimasto del cd. “Porcellum”, dopo l’intervento della stessa Consulta all’inizio del 2014, con la sentenza n. 1.
Mentre si attende la decisione del collegio – presieduto da Paolo Grossi, ordinario di storia del diritto medievale e moderno, e avente come relatore il costituzionalista Nicolò Zanon – sembra il caso di cogliere l’occasione per fissare alcuni punti fermi su quanto potrebbe avvenire a breve, sul piano giuridico e politico.
La questione dell’ammissibilità
Innanzitutto, non bisogna dare per scontato che la Corte “decida di decidere” o, più precisamente, scelga di entrare nel merito delle questioni sollevate dai tribunali. Lo stesso dubbio, in effetti, era stato espresso da molti costituzionalisti alla vigilia della sentenza della Consulta sul Porcellum: un po’ perché la scelta della legge elettorale è (forse più di ogni altro tema) una political question, che è giusto sia affrontata in sede politica e dagli organi rappresentativi del popolo, dunque dalle Camere, un po’ perché fino a quel momento per gli studiosi e anche per diversi giudici era sembrato impossibile instaurare un processo all’interno del quale sollevare correttamente la questione di legittimità costituzionale.
La valutazione richiesta al giudice a quo deve infatti verificare, oltre che l’effettiva necessità di applicare la norma potenzialmente illegittima al caso in discussione, anche l’esistenza di un oggetto del processo (e della domanda alla base) separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale: il processo non può essere avviato solo per impugnare le norme “incriminate” davanti alla Corte. Ci si aspettava una pronuncia di inammissibilità, ma i giudici costituzionali avevano ritenuto che il giudizio principale avesse il fine di «accertare la portata del proprio diritto di voto, resa incerta da una normativa elettorale in ipotesi incostituzionale»: domandare al giudice di accertare i “confini” del proprio diritto di voto era qualcosa di più rispetto a chiedergli di investire la Consulta del controllo di costituzionalità sulle norme elettorali alla base del diritto di voto. Molti studiosi non accettarono pacificamente quella decisione, altri ritennero che si fosse sfondata la porta che fino ad allora (soprattutto per il regime di verifica dei poteri, riservato alle Camere) aveva impedito ogni intervento della Consulta sulle leggi elettorali: in quell’occasione, la Corte giudicò prioritario evitare la permanenza di «zone franche» nella giustizia costituzionale, a costo di forzare la linea tenuta sino a quel momento.
Proprio in nome di quella porta sfondata, coloro che volevano affossare la legge elettorale approvata dal Parlamento nel 2015 si sono rivolti a decine di tribunali, nella speranza che vari giudici accettassero di seguire il percorso aperto nel 2013 dalla Cassazione e avallato dalla Consulta. Non è affatto scontato, tuttavia, che anche questa volta il giudice delle leggi decida di intervenire sul merito. Coerenza con l’ultima decisione presa, ovviamente, farebbe optare per l’ammissibilità delle questioni, ma è il caso di ricordare che il contesto è almeno in parte diverso rispetto a quello che ha portato alla decisione sul Porcellum. Si deve ricordare che la Corte costituzionale era intervenuta ufficialmente in due occasioni (le sentenze del 2008 che avevano ammesso i quesiti referendari Guzzetta-Segni e quella del 2012 che aveva bocciato i quesiti del comitato Morrone-Parisi – difeso tra l’altro da Enzo Palumbo, oggi tra i ricorrenti davanti al tribunale di Messina, il primo a sollevare la questione di costituzionalità sull’Italicum) e, nel 2013, pure con dichiarazioni inequivoche dei presidenti Franco Gallo e Gaetano Silvestri (costituzionalista), per mettere in guardia il Parlamento sugli “aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi”. Si potrebbe dire, dunque, che la sentenza n. 1/2014 era stata preceduta da una serie di moniti e avvertimenti al legislatore, nessuno dei quali era stato colto: la pronuncia d’illegittimità costituzionale, dunque, poteva anche leggersi come una risposta “necessaria” di fronte al prolungato stallo parlamentare.
In questo caso, invece, non risulta alcun intervento preventivo, nemmeno informale, sulla questione della legge elettorale; di più, le nuove norme non sono mai state applicate, dunque non c’è nemmeno un precedente da far valere e alla Corte sarebbe richiesta una semplice valutazione “sulla carta”, del tutto astratta, mentre di norma i giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale (nati all’interno di un processo, non essendo consentito impugnare direttamente le norme davanti alla Consulta, al di là del rapporto tra Stato e Regioni) partono sempre da una vicenda concreta che consente al giudice di chiedere alla Corte un intervento chirurgico sulla legge, togliendo o aggiungendo (sulla base di altre norme dell’ordinamento) ciò che è strettamente necessario per rimediare all’eventuale incostituzionalità fatta emergere dal caso pratico. Per queste ragioni, non è scontato che il giudice delle leggi voglia continuare sulla strada aperta con il Porcellum; allo stesso modo, potrebbe invece prevalere la linea demolitoria, per ovviare all’inattività delle Camere.
I punti che la Corte potrebbe esaminare
Se la Corte dovesse decidere di entrare nel merito delle questioni, potrebbe intervenire (solo) su alcuni punti ben determinati, ossia quelli che i singoli giudici a quibus hanno ritenuto di sottoporle, nient’affatto corrispondenti alla totalità dei profili di incostituzionalità rilevati dai vari ricorrenti. Vale la pena ripercorrerli in breve:
- Il premio di maggioranza: la questione è considerata dal Tribunale di Messina e, sia pure in modo diverso, da quello di Genova. Senza censurare il premio in sé e per sé, per i giudici a quibus quello previsto dall’Italicum sarebbe irragionevole per la mancata previsione di “un necessario rapporto tra voti ottenuti rispetto non già ai voti validi, ma al complesso degli aventi diritto al voto”, cosa che distorcerebbe e comprimerebbe il diritto a un voto uguale e diretto anche qualora una lista superasse il 40% (dei voti validi) al primo turno. Il Tribunale di Genova ha impugnato le norme considerando anche due casi limite: il primo è quello della lista seconda classificata che superi al primo turno il 40%, ma veda la sua rappresentanza molto compressa dal pacchetto di 340 seggi assegnato alla prima classificata (con una percentuale di poco superiore); il secondo prevede l’obbligo di ballottaggio anche quando la lista più votata al primo turno, pur non arrivando al 40% (per una notevole frammentazione del voto tra forze che non superano la soglia del 3%), riesca a ottenere comunque 340 seggi.
- L’assegnazione del premio di maggioranza al ballottaggio: si tratta di uno degli argomenti più sollevati, su cui tutte e cinque le ordinanze si sono diffuse. In particolare, la criticità sarebbe data dall’assenza di una soglia minima di voti (e, come messo in luce dal Tribunale di Perugia, di un quorum di partecipazione al secondo turno) come condizione per accedere al premio, cosa che distorcerebbe troppo l’eguaglianza del voto e il principio di rappresentanza: del premio, infatti (come sottolineato dal Tribunale di Torino), potrebbe giovarsi “una formazione che è priva di adeguato radicamento nel corpo elettorale”.
- La distribuzione nazionale dei seggi: l’argomento è stato sollevato solo dal Tribunale di Messina, anche se è stato oggetto di numerose polemiche nei mesi precedenti. In particolare, la prevalenza data alla distribuzione nazionale dei seggi potrebbe provocare “slittamenti” di seggi da un territorio (in cui i candidati in campo non bastano a coprire i posti ottenuti) a un altro (in cui invece i candidati sono di più dei posti ottenuti), ledendo così i principi di rappresentatività territoriale e del voto diretto.
- Le candidature multiple dei capilista: questo è l’altro argomento sollevato sostanzialmente da tutti i tribunali. Il problema non sarebbe dato tanto dai capilista “bloccati” (argomento che però il Tribunale di Messina ha sollevato, con riguardo alle forze di minoranza, la cui rappresentanza parlamentare sarebbe largamente dominata proprio dai capilista bloccati), quanto – come sottolineato da tutti gli altri giudici a quibus – dalla possibilità delle candidature multiple (fino a dieci per ogni candidato di collegio) e dal fatto che sia rimessa del tutto al capolista multicandidato e multieletto l’opzione per l’uno o per l’altro collegio, senza alcun vincolo: in questo modo l’elettore “viene privato – come sottolineato a Perugia – del proprio diritto di scegliere i propri rappresentanti con le preferenze”, non avendo alcuna possibilità di prevedere per quale collegio il capolista opterà (col rischio che resti il “primo dei non eletti” un candidato che ha ottenuto molte più preferenze di chi, in virtù dell’opzione, viene invece eletto altrove).
- Le soglie di accesso al Senato: il problema – considerato solo a Messina – sarebbe dato dall’irragionevolezza delle soglie di sbarramento previste dal cd. Consultellum (dunque ciò che resta del Porcellum per il Senato, dopo la sentenza n. 1/2014), richiedenti il raggiungimento del 20%, del 3% e dell’8% rispettivamente alle coalizioni di liste, a ciascuna lista coalizzata e alle liste esterne alle coalizioni, a fronte di una soglia unica del 3% per tutte le liste alla Camera (senza possibilità di stringere coalizioni).
- L’applicazione dell’Italicum alla sola Camera: si tratta di una questione – anch’essa sollevata dal solo Tribunale di Messina – inevitabilmente legata alla mancata entrata in vigore della riforma costituzionale. I ricorrenti e il giudice, in particolare, chiedono alla Corte di valutare se sia incostituzionale la previsione, all’interno dell’Italicum, dell’applicazione della stessa legge a partire dal 1° luglio 2016 (senza legarla invece all’entrata in vigore della riforma), a prescindere dalla legge elettorale vigente per il Senato: ciò, in caso di sopravvivenza del Consultellum (e, come poi è avvenuto, dello stesso Senato), farebbe così coesistere due sistemi elettorali del tutto diversi, dando origine a due maggioranze differenti.
- Il voto in Trentino – Alto Adige: si tratta di una questione sollevata dal solo Tribunale di Genova (gli altri hanno invece ritenuto sempre non rilevanti le questioni legate a minoranze linguistiche, sul presupposto che i ricorrenti non ne facessero parte). In pratica, per i giudici rimettenti sarebbe leso il diritto di voto libero e uguale nel Trentino – Alto Adige, qualora i tre seggi di recupero proporzionale venissero assegnati a una lista non apparentata con alcuna lista nazionale o espressione della minoranza linguistica vincitrice nella suindicata regione: ciò comporterebbe una violazione nella rappresentatività della minoranza nazionale, rispetto alla minoranza linguistica assegnataria dei tre seggi di recupero proporzionale.
Come potrebbe decidere la Corte
Visti i punti che il giudice costituzionale è chiamato a considerare, occorre riflettere in breve sui possibili esiti del giudizio e sul corretto significato da attribuire loro. In particolare, se dalla Corte dovesse arrivare un verdetto di inammissibilità (cosa non impossibile, come detto, il che consentirebbe tra l’altro alla Consulta di sbarazzarsi in modo abbastanza agevole di una questione delicatissima), non si potrebbe avere alcuna certezza sulla rispondenza o meno dell’Italicum al dettato costituzionale, semplicemente perché sul punto il collegio non interverrebbe affatto. Nessuno, dunque, di fronte a una decisione di inammissibilità potrebbe dire “si voti tranquillamente con questa legge, la Corte non ha censurato nulla, quindi va bene”. Sarebbe necessaria, nel caso, una riflessione delle forze politiche, per decidere se andare comunque al voto con queste regole per la Camera (ed estenderle magari al Senato), se modificarle anche solo in parte o se cambiare decisamente registro, optando per un sistema elettorale del tutto diverso per entrambi i rami del Parlamento.
Un discorso simile, del resto, dovrebbe essere fatto anche qualora tutte le questioni sollevate dai tribunali, o anche solo alcune di essi, dovessero essere dichiarate infondate. Come è noto a chi studia il diritto costituzionale, la Corte è tenuta a valutare esclusivamente le ragioni addotte dai giudici che la interpellano e solo su queste fonda le proprie decisioni: respingere una questione di costituzionalità su una norma non significa dire che quest’ultima è conforme al contenuto della Carta, ma soltanto affermare che la specifica critica rivolta a quella regola non è fondata; nulla vieta che, in seguito, un qualunque giudice chieda di nuovo alla Consulta di esaminare la stessa norma, sia pure sotto un altro profilo.
Qualora, infine, alcune delle questioni vengono accolte, queste avranno immediatamente efficacia, anche se non è detto che siano direttamente applicabili: il precedente della sentenza n. 1/2014, che ha introdotto l’espressione della preferenza – anche per il Senato, per il quale l’elettore non ha mai potuto esprimere la scelta per uno o più candidati – senza poter intervenire minimamente sulla scheda elettorale in vigore, rendendo dunque necessaria una legge per adottare un nuovo modello che consenta di scrivere un nome accanto al simbolo scelto, dimostra che questo scenario è possibile.
In ogni caso, nessuno deve attendersi che la Consulta faccia qualcosa di diverso dai compiti che le spettano: essa potrà eventualmente intervenire sui singoli punti che ne sono stati sottoposti, non certo mondare l’Italicum da tutti i possibili profili di illegittimità che dovesse contenere (in particolare, non potrà dire nulla sui vizi che i ricorrenti hanno segnalato, ma che i tribunali cui si sono rivolti non hanno ritenuto di dover portare all’attenzione della Corte).
Gli scenari dopo la decisione
Certamente, quale che sia la decisione della Corte costituzionale, subito dopo (e, si spera, avendo almeno il decoro di aspettare il testo integrale del decisum)si aprirà la partita politica sulla legge elettorale effettivamente da utilizzare alla prossima chiamata al voto. Da questo punto di vista, si sono già manifestati schieramenti abbastanza chiari all’interno del Parlamento, piuttosto facili da leggere.
Il Partito democratico, per esempio, fin dai giorni successivi al referendum confermativo sulla riforma costituzionale, ha proposto il ritorno al Mattarellum, dunque alla legge a prevalenza maggioritaria e a temperamento proporzionale applicata alle elezioni del 1994, del 1996 e del 2001, anche se probabilmente sarà necessario intervenire per apportare qualche modifica. Non stupisce, tutto sommato, che la proposta venga proprio dal Pd: è vero che il centrosinistra nei fatti ha perso due elezioni delle tre svoltesi con quel sistema, ma è altrettanto vero che di fronte il partito di Renzi sa di avere un centrodestra oggettivamente più debole rispetto al passato (anche qualora riuscisse a mantenersi unito, proprio a motivo di quel sistema elettorale) e un MoVimento 5 Stelle che, presentandosi da solo “per statuto”, difficilmente riuscirebbe a superare la somma delle forze di centrosinistra riunite sotto un unico simbolo a sostegno del candidato. A questo si aggiunga che, anche negli anni in cui è arrivata una sconfitta, i Progressisti e l’Ulivo hanno dimostrato di saper scegliere con maggior cura i loro candidati, riuscendo spesso a prevalere in quei collegi uninominali cosiddetti “marginali”, in cui il peso delle forze politiche contendenti si equivaleva e a fare la differenza era il profilo dei candidati.
Per lo stesso motivo, non stupisce che i maggiori concorrenti del Pd non abbiano alcuna intenzione di votare con una rivisitazione della “legge Mattarella”. Il M5S, per esempio, al momento ha tutto l’interesse ad andare al voto con la legge elettorale attualmente in vigore, magari ritoccata dalla Consulta o secondo le sue indicazioni – sebbene vari eletti del MoVimento, ritenendo quel sistema elettorale contrario alla Costituzione, abbiano partecipato come ricorrenti alle iniziative contro l’Italicum e alcuni figurino anche nelle ordinanze alla base dell’udienza pubblica di oggi – per una semplice questione di numeri. Il sistema ora in vigore, infatti, potrebbe assicurare al M5S almeno l’accesso al ballottaggio (ammesso che la Consulta lo conservi) e, con molte probabilità, anche la vittoria finale: non è escluso che, com’è avvenuto spesso alle amministrative, in caso di secondo turno anche parte del centrodestra sostenga il MoVimento, essenzialmente per opporsi al centrosinistra. Pure il Mattarellum, in ogni caso, anche se certamente si presenta sulla carta come meno favorevole, non sembra una soluzione del tutto sgradita al gruppo vicino a Beppe Grillo (in fondo il M5S aveva votato a favore della “mozione Giachetti” a maggio del 2013, difficile dire quanto ci credesse davvero e quanto fosse piuttosto questione di “tattica”, in chiave anti-Pd): la dimensione non enorme del collegio uninominale, infatti, potrebbe favorire il candidato del MoVimento – che dev’essere per forza locale – specialmente se il suo avversario principale fosse un “paracadutato” del centrosinistra, senza alcun legame con il territorio e magari non troppo gradito alla base.
Al contrario, Forza Italia avrebbe tutto da perdere tanto dal sistema attuale, quanto dal Mattarellum. Nel mantra ripetuto di continuo da Silvio Berlusconi e dai dirigenti a lui vicini – “con il sistema tripolare attuale non è pensabile un sistema col premio di maggioranza”, “occorre garantire la rappresentanza” – è scritto chiaramente il vero motivo della posizione degli azzurri: nelle condizioni attuali, i forzisti sono certi non solo di non primeggiare in quasi nessun territorio (come richiederebbe il Mattarellum, sistema con cui peraltro hanno sempre avuto problemi, a causa di una non perfetta conoscenza dei candidati da schierare nei vari collegi, specie in quelli marginali), ma anche di non riuscire ad arrivare nemmeno secondi a livello nazionale (per approdare al ballottaggio dell’Italicum). Ecco allora che l’unico sistema in grado di garantire una loro presenza adeguata all’interno delle Camere risulta essere il proporzionale.
Allo stesso modo, non stupisce che propendano per il proporzionale i partiti minori dei vari schieramenti (a partire dal Nuovo centrodestra e da ciò che resta di Scelta civica), perché ogni soluzione maggioritaria li costringerebbe all’irrilevanza, obbligandoli a stringere per i candidati di collegio accordi non proprio vantaggiosi con i partiti maggiori (il Mattarellum rivisto) o comunque a superare una soglia di sbarramento non scontata da raggiungere (l’Italicum). Quanto a Lega e Fratelli d’Italia, a loro interessa soprattutto votare in fretta, non importa come, purché ci si vada. E così la partita sulla legge elettorale continua, mentre si aspetta la Consulta, senza sapere bene come andrà a finire.