Sergio Mattarella: un notaio al Quirinale?

di Alessandro Gigliotti

sergio mattarella

Questa volta non ci sono stati colpi di scena. Sergio Mattarella è il nuovo Presidente della Repubblica. È stato eletto proprio al quarto scrutinio, così come aveva preannunciato il Premier Matteo Renzi, con un numero di voti tale da sfiorare persino il quorum dei due terzi richiesto nei primi tre.

Dalla delicata partita del Colle, che aveva messo apprensione persino ad un Presidente del Consiglio che ostenta sempre grande sicurezza, la politica italiana ne esce bene. Alla fine, non c’è stata alcuna tensione nel Partito democratico, dove è rientrata inaspettatamente la frattura consumata solo pochi giorni fa sulla legge elettorale. Ma non c’è stata una significativa spaccatura neppure nella coalizione che sostiene il Governo: anche i centristi di Ncd e Udc, seppur con qualche mugugno, hanno accolto l’indicazione di voto verso il Professore siciliano, così come molti voti sono giunti da Sel e persino da Forza Italia.

L’elezione di Sergio Mattarella rappresenta una indubbia vittoria del Premier. È riuscito a ricompattare il partito, fortemente lacerato, proprio nel corso della partita più difficile. Ma è riuscito anche a aggregare gli altri alleati di governo, che nei giorni immediatamente precedenti avevano assunto una posizione di netta contrarietà, in accordo con gli esponenti di Forza Italia. Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare che il nome di Mattarella sia stato frutto di una scelta del solo Matteo Renzi: si è trattato di un compromesso tra le diverse posizioni in campo, un compromesso cercato nel silenzio ma non per questo meno faticoso ed elaborato.

Ne esce meno bene, invece, Silvio Berlusconi, che dopo aver sostenuto le riforme istituzionali e contribuito in Senato ad approvare la legge elettorale (nei voti decisivi Forza Italia è stata determinante) si è visto imporre un nome non gradito. Non soltanto perché Mattarella è uno dei cinque ministri che, nel lontano 1990, si dimise in polemica con l’approvazione della legge Mammì. Neppure per il fatto di essere un esponente della sinistra democristiana, area politica alquanto invisa all’ex Premier che ha ancora nella mente il settennato di Scalfaro. Ma anche e soprattutto perché Mattarella non è stato il candidato del Patto del Nazareno. Un patto che solo ingenuamente si può pensare riguardasse le sole riforme istituzionali, essendo invece un accordo politico di portata più ampia e generale. L’altro sconfitto del giorno è il Movimento 5 Stelle, che ha sostenuto anche nel quarto scrutinio il candidato di bandiera, Ferdinando Imposimato, e si è rivelato pertanto del tutto ininfluente.

È prematuro fare previsioni sul futuro settennato di Mattarella. Di certo, si può abbozzare un piccolo ritratto del nuovo inquilino del Colle. Storico esponente della sinistra Dc, figlio di Bernardo e fratello di Piersanti, Mattarella è una persona schiva e riservata. Giurista e costituzionalista per formazione, ha ricoperto diversi incarichi ministeriali sia nel corso della Prima sia durante la Seconda Repubblica. Da alcuni anni giudice costituzionale, il suo nome è fortemente legato a quella legge elettorale – definita non senza ironia mattarellum da Giovanni Sartori – che accompagnò il passaggio tra le due fasi della storia repubblicana. È ritenuto un uomo mite, ma non per questo condizionabile. Un uomo dalla schiena dritta, non disposto a negoziare sui valori. Un uomo cui non mancheranno né l’esperienza politica per gestire eventuali crisi né gli strumenti per ergersi a difensore della Carta costituzionale e del corretto funzionamento del quadro istituzionale. Non farà ombra al Presidente del Consiglio, ma non sarà un semplice taglia nastri. Non è però da escludere che la presidenza Mattarella, se le condizioni politiche lo consentiranno, sarà improntata allo stile «notarile» che caratterizzò il settennato di Luigi Einaudi. Anche in quel caso, si trattava di un Presidente di maggioranza, eletto in un contesto di grande stabilità, contesto che non richiese – se non negli ultimissimi mesi – un atteggiamento interventista del Quirinale. Esattamente la stabilità che le imminenti riforme si prefiggono di garantire.

Pubblicità
Pubblicato in Uncategorized | Contrassegnato , , , , , , | Lascia un commento

Un «super canguro» per la legge elettorale: l’Espositum

di Alessandro Gigliotti

espositum

Con oltre 47mila emendamenti al disegno di legge di riforma elettorale, presentati prevalentemente dal gruppo della Lega nord, l’iter per l’approvazione del testo sembrava destinato ad andare per le lunghe, con conseguenti rischi per la tenuta della maggioranza. Ma la giornata di oggi ha registrato un colpo di scena che ha permesso di cancellare, d’un tratto, oltre 35mila proposte di modifica che gravavano sul disegno di legge. Un emendamento presentato dal sen. Esposito, del Partito democratico, ha infatti consentito di snellire in modo incredibile i lavori. Questa volta, però, a differenza di quanto accaduto la scorsa estate, non c’è stato bisogno di applicare la tecnica del «canguro», ma è stato sufficiente approvare una singola proposta emendativa per abbattere diverse decine di migliaia di altri emendamenti. Per capire come ciò sia stato possibile, è necessario addentrarsi nei meandri della tecnica parlamentare.

L’emendamento Esposito, anzitutto, è un emendamento premissivo, cioè premette all’art. 1 del testo di legge un ulteriore articolo. In quanto tale, per ovvie ragioni procedurali, la proposta è stata votata all’inizio, ben prima delle altre riferite agli articoli successivi che contengono il «cuore» del sistema elettorale e, soprattutto, senza affogare nel mare magnum degli emendamenti del leghista Calderoli. In secondo luogo, l’emendamento Esposito è stato appositamente strutturato per consentire di estendere al massimo la tecnica della preclusione, in base alla quale l’approvazione di un dato emendamento fa decadere tutte le altre proposte successive incompatibili. Ebbene, l’emendamento Esposito sintetizza in pochi punti tutti i contenuti dell’accordo di maggioranza, ivi inclusi il premio alla lista più votata, la soglia del 40%, l’eventuale ballottaggio, i capilista bloccati, lo sbarramento al 3%, la clausola di salvaguardia e via dicendo. La sua approvazione, pertanto, ha avuto l’effetto di precludere tutti gli emendamenti che propongono misure diverse o semplicemente incompatibili: praticamente, la stragrande maggioranza dei 47mila emendamenti. Il Presidente di turno, per ironia della sorte lo stesso Calderoli, ha annunciato infatti la decadenza di circa 35mila proposte emendative.

L’approvazione dell’emendamento Esposito in questione non è avvenuta senza contrasti. Dagli stessi banchi della maggioranza, si è infatti evidenziato che la proposta, per come è stata formulata, era di fatto un ordine del giorno mascherato piuttosto che ad un vero e proprio emendamento, che ai sensi del regolamento deve avere reale portata modificativa pena l’inammissibilità. Da altri si è fatto presente che l’approvazione dell’emendamento avrebbe di fatto privato l’Aula della possibilità di discutere sulle altre proposte, dopo che i lavori della Commissione erano stati sospesi di colpo per permettere l’approdo in Aula, poco prima di Natale. I senatori della Lega hanno addirittura sostenuto che il sen. Esposito avrebbe presentato la sua proposta oltre i termini stabiliti, ma l’interessato ha prontamente smentito e, ad ogni modo, la presidenza ha assicurato la regolarità dell’intero procedimento.

Nel corso di una seduta infuocata, che ha visto peraltro spaccarsi sia i gruppi di maggioranza sia quelli di opposizione, l’emendamento è stato infine accolto. La strada per l’approvazione dell’Italicum, però, è ancora lunga. Restano infatti ancora molti emendamenti da votare, in relazione ai quali il Presidente Calderoli ha preannunciato la concreta possibilità di applicare la tecnica del canguro. L’obiettivo di fondo, d’altra parte, resta quello: approvare la legge elettorale al Senato prima della convocazione del Parlamento in seduta comune per l’elezione del Capo dello Stato, fissata per giovedì 29 gennaio.

Pubblicato in Uncategorized | Contrassegnato , , , , , , , | Lascia un commento

Le dimissioni di Napolitano. Un evento annunciato

di Alessandro Gigliotti

dimissioni Napolitano

Com’era stato ampiamente annunciato, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha rassegnato le dimissioni alle 10.35 di oggi, a distanza di meno di due anni dalla sua rielezione e poche ore dopo il discorso di Renzi al Parlamento europeo, che ha chiuso il semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’Unione europea. Si chiude così una parentesi avviata nell’aprile del 2013, quando il Parlamento in seduta comune al sesto scrutinio ha rieletto il Presidente uscente, andando in senso contrario rispetto ad una prassi che, pur nel silenzio della Costituzione, aveva sempre escluso tale eventualità.

Che il secondo settennato di Napolitano sarebbe durato circa un paio d’anni, in realtà, lo si sapeva sin dall’inizio. Un biennio era non soltanto un arco di tempo relativamente ampio da permettere al Paese di mettere in cantiere le riforme economiche ed istituzionali ritenute allora non più rinviabili, ma anche un tempo che non esponeva al rischio di protrarre il mandato oltre la sostenibilità dovuta alla carta di identità del titolare. Un biennio era a grandi linee la prospettiva entro cui si sarebbe dovuto muovere il Governo Letta, prima di decretare la fine di una legislatura che si preannunciava breve. Da quel momento ad oggi, però, le condizioni politiche sono drasticamente mutate. Con la nascita del Governo Renzi la legislatura sembra avviata a durare più del previsto, nonostante una storica sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionali le norme elettorali; ma con il nuovo esecutivo si è anche interrotta la serie di «governi del Presidente» avviata con la nomina di Monti e proseguita con Letta. Un governo che cammina da solo e che trae la sua legittimazione dalla fiducia della maggioranza parlamentare non richiede più una garanzia del Quirinale come avvenuto in passato.

Le dimissioni di Napolitano aprono ora lo scenario della supplenza del Presidente del Senato, Pietro Grasso, e soprattutto quello delle elezioni presidenziali. A tal proposito, l’art. 86 della Costituzione prevede che in caso di impedimento permanente, morte o dimissioni del Capo dello Stato, il Presidente della Camera debba indire le elezioni del nuovo Presidente entro 15 giorni, salvo il caso di Camere sciolte ovvero qualora manchino meno di tre mesi alla loro cessazione. Entro il prossimo 29 gennaio, pertanto, saranno riuniti i «grandi elettori» chiamati a scegliere il nuovo inquilino del Quirinale: i parlamentari in carica, i 58 delegati regionali, ivi inclusi i senatori a vita tra i quali vi sarà anche lo stesso Giorgio Napolitano. La maggioranza richiesta sarà quella dei due terzi nei primi tre scrutini e quella assoluta a partire dal quarto.

Nei giorni scorsi Ballot ha proposto un sondaggio, per chiedere ai lettori chi sarebbe stato, secondo loro, il futuro Presidente della Repubblica. Ha prevalso Emma Bonino, la storica leader del Partito radicale che ha preceduto altri due autorevoli esponenti politici, Giuliano Amato e Romano Prodi. Ma i nostri lettori hanno attribuito diversi «voti» anche ad altri potenziali candidati. D’altra parte, le elezioni presidenziali sono una gara dall’esito sempre incerto e non sono pochi i grandi leader del passato che, pur favoriti alla vigilia, non sono riusciti ad ottenere i consensi necessari: da Sforza a Merzagora, da Fanfani a Nenni, da Forlani ad Andreotti. Mai come questa volta, poi, il «conclave laico» rischia di aprirsi senza un vero favorito, anche e soprattutto alla luce degli eventi che hanno portato nel 2013 alla rielezione di Napolitano, dopo che gli scrutini precedenti avevano visto bruciati i candidati proposti.

Invitiamo pertanto i nostri lettori a seguire le vicende dei prossimi giorni con la passione civile e politica che si confà ad eventi di grande rilievo come questo. Poiché il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e riveste non soltanto il ruolo di rappresentante dell’unità nazionale, ma anche e soprattutto quello di garante della Costituzione.

Pubblicato in Uncategorized | Contrassegnato , , , , , , , | Lascia un commento

TotoQuirinale: chi vincerà?

La partita di prossima apertura per la successione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica sarà l’appuntamento più importante dell’agenda politica italiana ormai all’orizzonte. Trattandosi di una procedura elettorale, Ballot se ne occupa e propone un sondaggio.

A differenza però di varie ricerche fatte o da farsi, non vogliamo indagare il gradimento dei lettori per uno dei nomi circolati fin qui o per altre figure meno prevedibili. Chiediamo piuttosto ai lettori di indicare quale candidato può avere le maggiori chance di ottenere la maggioranza prescritta dalla Costituzione e di diventare, quindi, il nuovo Presidente della Repubblica. Si può indicare uno (solo) dei nomi proposti da noi (in rigoroso ordine alfabetico) oppure indicarne un altro, nell’apposito spazio bianco.

Di seguito inseriamo la mascherina per votare; al di sotto, un breve profilo per i probabili futuri inquilini del Quirinale individuati da Ballot. Buon sondaggio e, nell’attesa, buon 2015 a tutti.

 

I PROFILI

GIULIANO AMATO
Attualmente giudice della Corte costituzionale, è stato Presidente del Consiglio nel 1992-1993 e nel 2000-2001. Professore universitario di diritto costituzionale, ha ricoperto il dicastero del Tesoro e presieduto l’Antitrust e l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani.

EMMA BONINO
Storica esponente del Partito radicale, è stata membro della Commissione europea dal 1995 al 1999, Ministro per il Commercio internazionale e per le politiche europee nel II Governo Prodi, vicepresidente del Senato nella XVI legislatura e Ministro degli Affari Esteri nel Governo Letta.

ANNA MARIA CANCELLIERI
Laureata in Scienze politiche, entra nei ruoli del Ministero dell’Interno e viene nominata Prefetto nel 1993. Più volte commissario prefettizio (soprattutto a Bologna, dopo le dimissioni di Flavio Delbono), è stata Ministro dell’Interno nel Governo Monti e Ministro della Giustizia nel Governo Letta.

PIER FERDINANDO CASINI
Già esponente della Democrazia cristiana e “delfino” di Forlani, è fondatore e segretario politico del Centro cristiano democratico (CCD) e poi dell’Unione di Centro (UDC). Presidente della Camera dei deputati nella XIV legislatura, presiede ora la Commissione Esteri del Senato.

SABINO CASSESE
Già docente universitario e Presidente dell’Associazione italiana Professori di Diritto amministrativo, è considerato tra i maggiori esperti della materia. Autore di numerosi volumi e manuali, è stato Ministro della Funzione pubblica nel Governo Ciampi e giudice della Corte costituzionale.

PIERLUIGI CASTAGNETTI
Già esponente della Democrazia cristiana, fu stretto collaboratore di Giuseppe Dossetti, Benigno Zaccagnini e Mino Martinazzoli. È stato segretario politico del Partito popolare italiano dal 1999 al 2002 (formalmente lo è tuttora, anche dopo la sospensione dell’attività del partito) e Vicepresidente della Camera dei deputati nella XV legislatura.

MARIO DRAGHI
Presidente della Banca Centrale Europea dal 1° novembre 2011. Professore universitario di Economia, è stato Direttore generale del Ministero del Tesoro dal 1991 al 2001, Governatore della Banca d’Italia e Presidente del Financial Stability Board dal 2005 al 2011.

ANNA FINOCCHIARO
Già magistrato, è stata Ministro per le Pari opportunità nel I Governo Prodi e Presidente del gruppo parlamentare dell’Ulivo al Senato nella XV legislatura. Già responsabile del settore giustizia per i Democratici di sinistra, nella legislatura in corso presiede la Commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama.

PIETRO GRASSO
Magistrato, è stato giudice a latere nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra del 1986-1987, Procuratore della Repubblica a Palermo e Capo della Direzione nazionale antimafia. Eletto senatore alle elezioni politiche del 2013, è attualmente Presidente dell’Assemblea di Palazzo Madama.

GIANNI LETTA
Giornalista, è stato direttore del quotidiano romano Il Tempo dal 1973 al 1987. Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel I Governo Berlusconi, ha ricoperto la medesima carica anche negli altri esecutivi presieduti dal leader di Forza Italia, di cui è da sempre stretto collaboratore.

SERGIO MATTARELLA
Docente universitario, fratello di Piersanti, ucciso dalla mafia. È stato Ministro per i Rapporti con il Parlamento nei Governi Goria e De Mita, della Pubblica Istruzione nel VI Governo Andreotti, della Difesa nei Governi D’Alema II e Amato II. Ideatore della legge elettorale del 1993, ora è giudice costituzionale.

PIETRO CARLO PADOAN
Economista, è stato Direttore esecutivo per l’Italia del Fondo Monetario Internazionale dal 2001 al 2005 e vice segretario generale dell’OCSE dal 2007, di cui diviene capo economista nel 2009. Attualmente è Ministro dell’Economia e delle Finanze nel Governo Renzi.

ROBERTA PINOTTI
Laureata in lettere, nel 2007 è Responsabile nazionale Difesa e Sicurezza nella Segreteria nazionale del Partito democratico. Eletta al Senato in occasione delle elezioni politiche del 2013, è stata sottosegretario alla Difesa nel Governo Letta; ora è Ministro della Difesa nel Governo Renzi.

ROMANO PRODI
Professore universitario di Economia, è stato il padre fondatore dell’Ulivo e Presidente del Consiglio dal 1996 al 1998 e dal 2006 al 2008. Già ministro, è stato Presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004 e, in precedenza, Presidente dell’IRI dal 1982 al 1989 e dal 1993 al 1994.

PAOLA SEVERINO
Avvocato penalista e professore universitario di diritto penale presso l’Università LUISS (già preside della facoltà di giurisprudenza, ora è prorettore vicario e presidente della LUISS School of Law), è stata Vicepresidente del Consiglio della Magistratura Militare dal 1997 al 2001 e Ministro della Giustizia nel Governo Monti.

WALTER VELTRONI
Giornalista e scrittore, è stato segretario dei Democratici di sinistra dal 1998 al 2001 e del Partito democratico dal 2007 al 2009. Sindaco di Roma dal 2001 al 2008, è stato Vicepresidente del Consiglio con delega ai Beni culturali nel I Governo Prodi e capo della coalizione di centro-sinistra alle elezioni politiche del 2008.

Pubblicato in Uncategorized | Contrassegnato , , , , , , , , , , , | 1 commento

Tra riforme e controriforme

di Vincenzo Iacovissi

L’anno 2014 volge al termine, portando con sé un bagaglio ricco di novità, conferme e smentite, che hanno profondamente mutato il quadro politico italiano e, molto probabilmente, anche quello istituzionale.

Il 2014 è stato contrassegnato, anzitutto, dalla fine dell’esperienza governativa di Enrico Letta, condizionata, in primis, dall’implosione del fronte berlusconiano e, in secundis,  dall’esito delle elezioni primarie del dicembre 2013, che hanno visto la soverchiante affermazione di Matteo Renzi, ponendo le premesse alla sua ascesa a Palazzo Chigi, avvenuta solo qualche settimana dopo.

Proprio il Governo guidato dall’ex Sindaco di Firenze può essere considerato la novità centrale e cruciale della politica italiana degli ultimi dodici mesi, poiché tutti gli altri avvenimenti sono stati una sua conseguenza, o quantomeno una sua propaggine.

La nascita del Governo Renzi si è inquadrata dentro una cornice di flessibilità, con modalità di formazione collocate a metà strada tra rottura e continuità con il passato.

Le rotture, oggetto di maggiore attenzione, sono state impersonate dalle caratteristiche del nuovo premier capace di porsi, almeno nella prima fase, più come un “Sindaco d’Italia” che non come un classico Primo Ministro. Da ciò ne è derivato uno stile smart assunto nelle dichiarazioni pubbliche, nella scelta della squadra di governo con notevole presenza femminile e significativa rappresentanza di “giovani”, e nondimeno nel modo di porsi dinanzi alle Assemblee parlamentari nei momenti più delicati.

A queste novità si sono accompagnati però fattori di continuità, come le modalità di avvicendamento con il precedente Gabinetto, molto vicine alle c.d. “crisi extraparlamentari” tipiche del primo quarantennio repubblicano, nonché la stessa ripartizione degli incarichi ministeriali, ispirata ai criteri di ponderazione ed equilibrio connaturati alle esperienze di Esecutivi di coalizione.

Ma è sul versante delle riforme istituzionali che il Governo ha occupato la scena, con l’approvazione, in prima lettura in estate da parte di Palazzo Madama, del ddl Renzi-Boschi, che riscrive porzioni importanti dell’ordinamento della Repubblica, superando il bicameralismo perfetto, trasformando il Senato in organo elettivo di secondo grado, rafforzando il ruolo del Governo nell’ambito dei lavori parlamentari, ridefinendo i rapporti tra Stato e regioni in una logica più attenta ai poteri del centro rispetto alla periferia, ed abolendo alcuni enti, come il CNEL e le vituperate province.

L’accelerazione impressa al treno delle riforme istituzionali ha coinvolto anche il sistema elettorale, con approvazione in prima lettura alla Camera a marzo, di un progetto di legge che ha dato sostanza normativa all’accordo politico stipulato a gennaio tra il neo segretario PD e l’ex premier Berlusconi, avvenuto tra le mura della sede PD di Largo del Nazareno di Roma e perciò ribattezzato “patto del Nazareno”.

Come noto, questo patto ha congegnato un sistema elettorale, il c.d. italicum, finalizzato ad assicurare governabilità, bipolarismo e semplificazione del sistema politico, con penalizzazione delle forze minori e previsione di meccanismi in grado di rendere esplicito il risultato del voto espresso dai cittadini. Anche nella versione revisionata del patto, l’italicum 2.0 mantiene il medesimo spirito di fondo, aprendosi, seppur in parte, alla facoltà per l’elettore di esprimere un voto di preferenza nella scelta dei deputati.

Ma il 2014 è stato anche l’anno di un fatto politico-istituzionale importante: le elezioni europee di maggio, che hanno garantito un amplissimo plebiscito a Matteo Renzi, consentendo al PD di superare il 40% dei voti espressi, ridimensionando la forza elettorale del M5S, di Forza Italia e della neonata formazione centrista guidata dal Ministro Alfano, tutto in una cornice di crescente astensionismo, confermato dai dati delle regionali di Calabria ed Emilia in autunno.

Un cenno merita anche la riforma delle province, la c.d. “Legge Delrio”, che, in attesa della loro abolizione costituzionale, ne ha sancito la trasformazione in ente di secondo livello, con organi di governo, Presidente e Consiglio provinciale, eletti in via indiretta dagli amministratori comunali e non più dai cittadini, benché conservino ancora precise competenze, sulle quali, peraltro, a distanza di alcuni mesi dall’entrata in vigore delle nuove norme, i dubbi applicativi non trovano una chiara soluzione.

Alla luce di quanto detto finora, l’anno che si apre con ogni probabilità sarà altrettanto ricco di appuntamenti istituzionali, a cominciare dall’elezione del nuovo Capo dello Stato, prossimo alle dimissioni anticipate, in uno scenario di crescente fluidità del quadro politico-parlamentare, come spesso avvenuto nella storia della scelta dell’inquilino del Quirinale.

Ballot continuerà a seguire l’attualità istituzionale anche nel 2015, aprendo una specifica finestra di osservazione sull’elezione del Presidente della Repubblica e monitorando il cammino del treno delle riforme ancora denso di ostacoli e tortuosità del tracciato, conservando l’approccio tecnico e distaccato nella descrizione dei fatti che caratterizza il nostro portale sin dalla sua nascita, di cui siamo lieti di festeggiare il secondo compleanno proprio in queste ore.

Ai nostri lettori, dunque, un grazie di cuore per l’interesse mostrato verso i nostri contenuti e auguri per un sereno Natale ed un 2015 all’altezza delle aspettative di ciascuno.

 

 

Pubblicato in Uncategorized | Contrassegnato , , , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

Il Quirinale e le elezioni: un rapporto delicato

di Gabriele Maestri

Napolitano dimissioni mandatoLa previsione, volendo, sarebbe stata fin troppo facile: tutti i telegiornali di oggi – come faranno presumibilmente (oltre che alla connessa frase di Beppe Grillo) i quotidiani maggiori di domani – stanno freneticamente attingendo a sette-parole-sette pronunciate questa mattina dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante lo scambio di auguri con il corpo diplomatico: “l’imminente conclusione del mio mandato presidenziale”. Una frase quasi lasciata scivolare all’interno di un contesto più ampio – quello che nella giurisprudenza costituzionale si definirebbe un obiter dictum – che però non è passato inosservato proprio a nessuno.

In effetti la costruzione complessiva del periodo (in cui si accenna subito prima alla “prossima fine di questo anno 2014”) farebbe addirittura pensare che le dimissioni del capo dello Stato fossero questione non di settimane (quelle che mancano alla fine dell’anno), ma di giorni: in fondo, “prossima” è pur sempre meno urgente di “imminente”. Più realisticamente, bisognerà attendere la conclusione del semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’Unione europea (come lo stesso ufficio stampa del Quirinale aveva chiarito all’inizio di dicembre): la data del passaggio di consegne alla Lettonia è il 13 gennaio, per cui solo dopo quel giorno il Presidente in carica potrebbe compiere l’atto “personalissimo” che metterebbe fine al proprio secondo, breve mandato.

A quel punto si metterà in moto la macchina prevista dall’art. 86 della Costituzione: entro 15 giorni dalle dimissioni spetterà a Laura Boldrini, come presidente della Camera, indire le elezioni del successore di Napolitano (il cui ruolo sarà esercitato temporaneamente, come supplente, dal presidente del Senato Pietro Grasso), convocando in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali.

Inutile negare che la consapevolezza che il nuovo mandato di Giorgio Napolitano non avrebbe coperto l’intero settennato era di tutti gli italiani. Lui stesso aveva precisato dall’inizio, nel suo discorso a Montecitorio, che se si fosse trovato “di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui” aveva cozzato in passato, non avrebbe esitato “a trarne le conseguenze dinanzi al paese”; in seguito aveva ribadito più volte il concetto, chiarendo senza ombra di dubbi che la sua permanenza al Quirinale si sarebbe chiusa ben prima del compimento dei sette anni. Da troppe settimane, tuttavia, interventi assai inappropriati stavano tentando di aprire in deciso anticipo la corsa al Colle, iniziando il “gioco” di proporre nomi col probabile scopo di bruciarli o farli impallinare dagli avversari; voci insistenti volevano ricomprendere la partita per la successione a Napolitano nel famigerato “patto del Nazareno” (a proposito, se è un “atto parlamentare”, come qualcuno sostiene, che numero e che classificazione ha?), quasi dimenticandosi che la sede presidenziale era tutt’altro che vacante e che parlare come se lo fosse era un esercizio di pessimo gusto.Ora, invece, le dimissioni sembrano davvero alle porte. Non si tratta certo di un atto inedito per l’Italia, ma il caso concreto è diverso da tutti i suoi precedenti. Non è certamente assimilabile la vicenda di Antonio Segni, che si dimise sì il 6 dicembre di mezzo secolo fa, ma essenzialmente in seguito alla grave malattia che l’aveva colpito dopo l’ictus di quattro mesi prima. Anche Giovanni Leone lasciò anzitempo il Quirinale (con un anticipo di poco più di sei mesi), ma lo fece in un clima assai diverso da quello che aveva portato alla sua elezione e decisamente polemico, gravido di attacchi legati al caso Lockheed e al pamphlet durissimo (ma finito condannato in ogni grado dai giudici) di Camilla Cederna.Da ultimo, si è dimesso formalmente in anticipo – il 28 aprile 1992 – anche Francesco Cossiga, due mesi prima della scadenza del mandato. Anche lui poco prima (a dicembre del 1991) aveva avuto la sua dose di attacchi pubblici, con la richiesta di messa in stato d’accusa targata soprattutto ex Pci; le dimissioni, poi, erano arrivate a meno di un mese dalle elezioni che avevano sconvolto il panorama politico e avevano dato ottanta parlamentari alla Lega.Anche nel caso di Napolitano, in effetti, bisognerebbe considerare il ruolo non marginale della vicenda “trattativa Stato-mafia”, che per la prima volta ha visto la deposizione in sede penale di un Presidente della Repubblica in carica. E’ evidente però che non è questo l’elemento dominante del quadro. C’è soprattutto un presidente oggettivamente stanco (e non solo per il dato dell’età), che ha accettato di succedere a se stesso per la prima volta nella storia repubblicana, ma con la chiara intenzione di circoscrivere il più possibile questa “eccezione”. Ciò in un quadro politico non confortante, in cui il partito che esprime il capo dell’esecutivo ha percentuali alte, a fronte di un astensionismo da brivido e di una maggioranza di governo eterogenea e destinata a non replicarsi.Soprattutto, Giorgio Napolitano arriverebbe alle dimissioni senza avere ancora visto approvata la riforma elettorale, sollecitata a più riprese e mai ottenuta, né nel precedente mandato, né in quest’anno abbondante di nuova permanenza al Quirinale. E’ toccato alla Corte costituzionale – a costo di alcune forzature nel modo di ragionare – intervenire per demolire alcune parti problematiche della legge del 2005 e per costringere, di fatto, il Parlamento a intervenire. Difficile però che l’iter possa arrivare a compiersi prima che il Quirinale si prepari al passaggio di consegne: se Napolitano volesse attendere l’approvazione dell’Italicum, potrebbe dover allungare la sua permanenza al Colle per vari mesi, per non parlare dei tempi che richiederanno le riforme costituzionali. Per questo, probabilmente, la via delle dimissioni conserva un retrogusto amaro per l’uomo che più di tutti ha operato al Quirinale, non avendo ancora visto la fine del percorso della nuova legge elettorale. Una condizione che, tuttavia, è stata anche la maggiore garanzia contro gli improvvisi desideri di elezioni anticipate sorti qua e là in questi mesi: Napolitano non le avrebbe mai volute, ma l’idea di dover votare con il Consultellum non piaceva proprio a nessuno. Tra i propri dispiaceri lasciati tra gli arazzi del Colle, per lo meno, Giorgio I non dovrà  contare anche lo smacco di un nuovo voto prematuro, con risultato tutto affidato alla sorte.

Pubblicato in Uncategorized | Contrassegnato , , , , , , | Lascia un commento

L’Italicum al varco

di Alessandro Gigliotti

foto calderoli

I senatori della Lega nord mentre depositano oltre 10.000 emendamenti al ddl di riforma elettorale

L’esame dell’Italicum presso il Senato è arrivato ad un punto di svolta. L’iter in Commissione Affari costituzionali procede a rilento anche per via della mole di proposte emendative presentate dai gruppi (circa 12.000 emendamenti e 6.000 subemendamenti), ma il Presidente del Consiglio Renzi è fermo nel proposito di accelerare i lavori e permetterne l’approvazione entro gennaio, possibilmente prima dell’inizio della delicata partita per il Quirinale.

Com’è noto, a seguito dell’incontro tra Renzi e Berlusconi del mese scorso, si profilano delle modifiche di rilievo al testo approvato dalla Camera dei deputati. In particolare, queste dovrebbero essere finalizzate a ridurre la soglia di sbarramento dall’8 al 3 per cento, ad innalzare dal 37 al 40 per cento la soglia minima per l’assegnazione del premio di maggioranza e ad accordare detto premio non già alla lista o coalizione più votata ma esclusivamente alla lista. Ciò significa che non sarà più possibile alcun apparentamento tra le liste e che queste concorreranno singolarmente. Le proposte sono state successivamente formalizzate in un emendamento presentato dalla sen. Finocchiaro, Presidente della Prima Commissione di Palazzo Madama e relatrice del disegno di legge.

L’attenzione dei senatori, in questi ultimi giorni, è però focalizzata su un altro aspetto, quello della c.d. clausola di salvaguardia che dovrebbe sospendere l’entrata in vigore della legge per un certo arco di tempo, in modo da permettere l’approvazione del disegno di legge di riforma costituzionale che rimodula l’assetto del bicameralismo. L’Italicum, infatti, si applica solo alla Camera e ciò sulla base del presupposto che il Senato sarà a breve escluso dal circuito fiduciario. Pur tuttavia, si pone il problema di eventuali elezioni anticipate, che potrebbero tenersi nel corso del 2015, e quindi prima dell’entrata in vigore della legge di riforma costituzionale che, in tale ipotesi, cadrebbe nel vuoto. Una tornata elettorale che si svolgesse nei prossimi mesi vedrebbe la Camera eletta con un sistema elettorale – l’Italicum, per l’appunto – ben diverso da quello attualmente vigente – noto con l’espressione Consultellum – che, a quel punto, si applicherebbe solo al Senato. Lo spettro di uno scenario simile a quello del febbraio 2013 già si prefigura.

A tal proposito, parte delle forze politiche vedrebbe di buon occhio una norma che condizionasse l’entrata in vigore della nuova legge elettorale all’entrata in vigore della riforma costituzionale del Senato. Dal momento che l’Italicum è pensato e costruito per un bicameralismo non più paritario, con un Senato eletto a suffragio indiretto e comunque estraneo al circuito fiduciario, se cadesse la riforma costituzionale dovrebbe cadere anche quella elettorale. Aut simul stabunt aut simul cadent. Il governo, tuttavia, è propenso ad una mera sospensione temporale di alcuni mesi, in modo tale che il 1° gennaio 2016 la legge elettorale possa entrare in vigore. Nel corso dei lavori, è stato anche proposto di ripristinare pro tempore il Mattarellum, che si andrebbe ad applicare per entrambe le Camere sino all’entrata in vigore dell’Italicum, prevista per il 2016.

Come si può ben notare, sono molti i nodi ancora da sciogliere ed è pertanto difficile azzardare una previsione. In queste ore, i senatori sono infatti impegnati nell’esame della legge di stabilità, che dovrà essere licenziata tra giovedì e venerdì per poi essere definitivamente approvata dalla Camera dei deputati. A motivo dell’ingorgo, non è da escludere che la Commissione Affari costituzionali non faccia in tempo a votare tutti gli emendamenti entro l’inizio della prossima settimana, momento in cui il disegno di legge dovrebbe approdare in Aula. La partita degli emendamenti, quindi, si sposterebbe dalla Commissione all’Aula, dove a gennaio si ripartirebbe da zero. A meno che, ovviamente, una “mossa” del Quirinale non rimetta tutto in discussione e anteponga alla riforma le elezioni per il nuovo Capo dello Stato.

Pubblicato in Uncategorized | Contrassegnato , , , , , , , , , | Lascia un commento

Elezioni provinciali. Qualcosa di nuovo, anzi d’antico

di Vincenzo Iacovissi

Entro il 12 ottobre prossimo avranno luogo le prime elezioni provinciali c.d. di secondo grado, ossia consultazioni in cui non parteciperanno i cittadini nella scelta dei livelli di governo, ma solo gli amministratori comunali.

Come è noto, l’abolizione dell’elezione diretta per gli organi delle province costituisce l’architrave della “riforma Delrio”, introdotta con la legge n. 56/2014 del 7 aprile scorso, e poi parzialmente modificata nei mesi successivi.

Le disposizioni di questa legge, nel dare attuazione alle città metropolitane e nel prevedere maggiori forme di aggregazione tra Comuni, configurano un nuovo assetto degli enti provinciali dal punto di vista funzionale nei rapporti con gli altri attori istituzionali, ma, soprattutto, ne mutano profondamente il canale di legittimazione tramite l’elezione indiretta dei suoi organi di indirizzo politico-amministrativo. Tutto questo, è bene precisarlo sin da ora, in attesa della riforma costituzionale del Titolo V e, quindi, del definitivo superamento di tali enti con la loro scomparsa dall’ordinamento.

Il nuovo assetto istituzionale delle province è, pertanto, regolato da un complesso di norme contenute tra il comma 51 e il comma 96 dell’art. unico di cui si compone la già citata legge Delrio.

Vediamone insieme i caratteri principali.

Anzitutto, scompare la Giunta, e quindi gli assessori provinciali.

In secondo luogo, gli organi della nuova provincia divengono:

  1. Presidente, eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali nell’ambito dei soli sindaci in carica (il cui mandato non scada prima di diciotto mesi dalla data delle elezioni provinciali): dura in carica 4 anni e non è removibile da parte del Consiglio, ma decade dalla carica in caso di cessazione del mandato da sindaco.
  2. Consiglio provinciale, composto, oltre al Presidente, da 10, 12 o 16 membri, a seconda della popolazione, eletti da sindaci e consiglieri comunali nel proprio seno per un mandato di due anni, con decadenza in caso di cessazione del rispettivo incarico comunale (salvo il caso di rielezione alla carica di sindaco o consigliere).
  3. Assemblea dei sindaci, presieduta dal Presidente, con compiti propositivi e consultivi rispetto agli altri organi, e con il potere di approvare ed emendare lo statuto provinciale.

Il meccanismo di elezione per Presidente e Consiglio è distinto, benché entrambi gli organi ricevano una legittimazione di tipo indiretto con il c.d. “voto ponderato”, ossia di diverso peso a seconda della fascia demografica di appartenenza degli aventi diritto al voto.

Ogni amministratore comunale esprime due voti in due schede, l’una per il Presidente, l’altra per il Consiglio, potendo, nel secondo caso, optare per un voto di lista oppure per un voto di lista con una preferenza tra i candidati consigliere.

È eletto Presidente il candidato che ottenga il maggior numero di voti a seguito delle operazioni di ponderazione, e in caso di parità, la carica è assegnata al candidato più giovane per età.

I seggi del Consiglio vengono invece ripartiti proporzionalmente tra le liste in competizione, sulla base della cifra ponderata di ciascuna lista e la cifra ponderata individuale dei singoli candidati.

Una norma transitoria riconosce, infine, l’elettorato passivo per le cariche di Presidente e consigliere anche in favore dei consiglieri provinciali uscenti, ma unicamente in sede di prima applicazione del nuovo sistema di elezione.

In terzo luogo, la legge stabilisce la gratuità di tutti gli incarichi provinciali.

Alla luce del complesso delle disposizioni richiamate, appare abbastanza nitida la radicale trasformazione che le province italiane stanno per subire dal punto di vista della legittimazione e della loro stessa natura di ente rappresentativo.

Non volendo esprimere un giudizio affrettato o pregiudiziale rispetto al nuovo assetto, non ci si può esimere dal formulare alcune considerazioni.

  1. Il meccanismo di elezione indiretta, oltre a ridurre la valenza politica dell’ente, può comportare la stipulazione di intese tra forze politiche locali spesso al di fuori dalle logiche competitive di una democrazia matura.
  2. La mancata previsione di strumenti di controllo del Consiglio nei confronti del Presidente, e viceversa, rischia di comportare un assetto di “governo diviso”, con Presidente e Consiglio espressione di connotazioni politiche differenti, oppur dar luogo a fenomeni di consociativismo più o meno intenso, con tutte le potenziali conseguenze sulla funzionalità dell’ente stesso facilmente intuibili.
  3. Il cumulo di due o tre incarichi in una sola persona, come ad esempio, sindaco-consigliere comunale-Presidente della provincia, oltre a stridere con il clima di razionalizzazione e sobrietà imposto dalle conseguenze della crisi economica e dall’esplosione di fenomeni dell’antipolitica, contiene, in nuce, una difficoltà strutturale per lo svolgimento efficiente di tutti gli incarichi, abbassando il rendimento complessivo delle istituzioni locali.
  4. La gratuità degli incarichi provinciali, se può essere preferita agli sperperi troppe volte emersi negli ultimi anni, finisce per svilire lo stesso ruolo di amministratore provinciale, con effetti, anch’essi, potenzialmente negativi sull’operatività degli organi monocratici e collegiali.
  5. La facoltà, per il Presidente, di affidare deleghe ai singoli consiglieri provinciali ripropone il tema della necessità di una “squadra di governo” che si pensava superata con l’eliminazione delle Giunte, le quali, peraltro, fino al recente passato, erano almeno sottoposte all’indirizzo e controllo del Consiglio, circostanza assolutamente assente nella normativa attuale.

In questa cornice, le province divengono enti di coordinamento di aree vaste, con connotati prevalentemente amministrativi ma all’interno dei quali, il ceto politico locale riacquista un ruolo cruciale nelle dinamiche di governo della collettività, realizzando, nei fatti, una sorta di eterogenesi dei fini rispetto alla ratio della riforma stessa, volta, come spesso ricordato dai proponenti, a semplificare la politica e ridurre la spesa.

Su tutto, pesa, infine, la spada di Damocle dell’abolizione costituzionale dell’ente provincia, che rende ancora più precario uno scenario che, ai nastri di partenza, presenta sicuramente molte novità, ricche, però, di altrettante (e forse più rilevanti) incognite.

 

 

Pubblicato in Uncategorized | Contrassegnato , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

La fisionomia del nuovo Senato

di Alessandro Gigliotti

foto

Con 183 voti favorevoli, nessun contrario e 4 astenuti, l’assemblea di Palazzo Madama ha approvato il disegno di legge costituzionale, fortemente voluto dal Premier Matteo Renzi e dal ministro Boschi, che riforma il bicameralismo italiano, trasformando radicalmente il Senato della Repubblica. I senatori sono stati pertanto chiamati a decidere sulla propria autoriforma, sfidando con successo il noto paradosso del riformatore che deve riformare se stesso. Ora la parola spetta alla Camera dei deputati, per il secondo dei quattro passaggi parlamentari cui si aggiungerà, verosimilmente, la pronuncia popolare per via referendaria.

Sinteticamente, i punti principali del nuovo testo costituzionale sono i seguenti. Scompare il bicameralismo paritario, dal momento che il nuovo Senato non potrà conferire né revocare la fiducia al Governo ed avrà un ruolo subordinato a quella della Camera nel procedimento di approvazione delle leggi. Inoltre, il disegno di legge cancella definitivamente le Province, sopprime il Cnel e rivede l’art. 117 in materia di riparto di competenze tra Stato e Regioni, per ovviare agli inconvenienti creati dalla riforma del 2001.

Il nuovo Senato diventerà la Camera rappresentativa delle istituzioni territoriali e sarà composto da 100 senatori così distribuiti: 95 eletti dai Consigli regionali e dai Consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano, cui si aggiungono 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica per sette anni (e non più a vita, dunque) nonché gli ex Presidenti della Repubblica. Dei 95 senatori eletti, 74 saranno scelti all’interno dei Consigli regionali stessi e 21 tra i sindaci dei comuni della Regione. I senatori non avranno diritto ad alcuna indennità, mantenendo quella conferita in virtù dell’incarico di consigliere regionale o sindaco.

Muta considerevolmente il procedimento legislativo, poiché Camera e Senato mantengono la competenza paritetica solamente per le leggi costituzionali, per quelle in materia di minoranze linguistiche e di referendum popolare e per le leggi aventi rilievo per l’autonomia regionale. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati e trasmesse al Senato che, entro un tempo definito, può proporre delle modifiche su cui la Camera si pronuncia in via definitiva. Per alcune particolari materie la Camera può superare le proposte emendative del Senato solo deliberando a maggioranza assoluta. Al Governo, inoltre, sono conferiti poteri più incisivi nell’ambito dell’iter legis; in particolare, l’esecutivo può chiedere alla Camera di deliberare che un disegno di legge, indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo, sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla votazione finale entro sessanta giorni. Trascorso il termine, il disegno di legge è posto in votazione nel testo proposto o accolto dal Governo, senza possibilità di modifiche. Si tratta di un istituto molto simile al vote bloqué previsto dall’art. 44, comma terzo, della Costituzione francese del 1958 e che, per sua natura, dovrebbe ridurre l’abuso costante della decretazione urgenza, operato da tutti i Governi, e del binomio maxiemendamento-questione di fiducia.

La nuova articolazione del Parlamento italiano ha fatto e farà discutere. Particolarmente contestata, nel corso dei lavori al Senato, è stata la norma che prevede l’elezione indiretta dei senatori, soprattutto alla luce delle modalità di elezione dei deputati, accolta nel disegno di legge di riforma elettorale denominato Italicum, che prevede la lista bloccata. Altro aspetto controverso, che meritava maggiore riflessione, concerne le modalità di elezione del Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato sarà eletto dal Parlamento in seduta comune di deputati e senatori, ma la sperequazione tra i membri della Camera, che restano 630, e quelli del Senato rende preponderante, all’interno del collegio, la volontà dei deputati. A tal fine, un emendamento del sen. Gotor ha opportunamente previsto che nei primi quattro scrutini sia necessaria la maggioranza dei due terzi e nei successivi quattro quella dei tre quinti. A partire dal nono scrutinio, però, sarà sufficiente la maggioranza assoluta; se si considera che la futura legge elettorale della Camera sarà verosimilmente di impianto maggioritario, la maggioranza politica potrà quindi eleggere un Capo dello Stato senza ricorrere ad un accordo bipartisan.

Un’innovazione degna di rilievo, invece, è la possibilità di sottoporre le leggi elettorali di Camera e Senato al sindacato preventivo della Corte costituzionale. A tal fine, un terzo dei componenti di ciascuna Camera può presentare un ricorso motivato, con l’indicazione dei profili di violazione della Costituzione. Si tratta di un’innovazione che consente non soltanto di risolvere l’annoso problema della conformità al testo costituzionale delle leggi elettorali, data la difficoltà di sollevare un giudizio di costituzionalità su di esse, ma anche la recente (e contestatissima) giurisprudenza della Corte che ha permesso di sindacare la legge Calderoli.

Infine, il disegno di legge si premura di riscrivere l’art. 117 della Costituzione, in materia di riparto di competenze tra Stato e Regioni, riformato già nel 2001 e da cui è scaturito un interminabile conflitto tra i due enti, che ha letteralmente ingolfato i lavori della Corte costituzionale. In particolare, è stata soppressa la potestà legislativa concorrente e molte materie precedentemente assegnate alle Regioni sono state ricondotte alla potestà statale.

Pubblicato in Uncategorized | Contrassegnato , , , , , | 2 commenti

Il «canguro» di Palazzo Madama

di Alessandro Gigliotti

canguroNegli ultimi giorni, quotidiani e social network sono stati inondati di notizie sull’adozione in Parlamento della tecnica del «canguro», decisa dal Presidente del Senato Grasso per velocizzare l’iter della riforma costituzionale e superare l’ostruzionismo delle opposizioni. Al di là del nome alquanto pittoresco, in estrema sintesi la tecnica del «canguro» non è altro che una modalità di votazione delle proposte emendative presentate nel corso dell’esame in Assemblea di un disegno di legge. Volta a razionalizzare i lavori nel caso in cui la mole di emendamenti sia tale da creare una paralisi, essa affonda le sue radici in una prassi seguita da tempo nei due rami del Parlamento ma codificata alla Camera solo di recente (nel 1997) ed applicata al Senato in via interpretativa.

Nel corso dei lavori d’aula, infatti, l’esame degli articoli di un disegno di legge consiste, principalmente, nell’esame delle proposte emendative, che vengono messe in votazione dopo una valutazione di ammissibilità e secondo un ordine definito dalla Presidenza dell’Assemblea. In particolare, per ovvie ragioni di economia procedurale, vengono messi in votazione prima gli emendamenti interamente soppressivi, poi quelli parzialmente soppressivi, quindi quelli modificativi e infine quelli aggiuntivi. Conseguenza inevitabile dell’approvazione o della reiezione di una proposta è la caduta di altre che, a quel punto, diventano incompatibili con le decisioni assunte in precedenza ovvero inutili: se, ad esempio, viene approvato un emendamento che sopprime un articolo, tutte le proposte modificative dello stesso articolo vengono meno, sono cioè precluse. Quando invece l’approvazione di un emendamento va nella medesima direzione di altri aventi medesime finalità, si parla di assorbimento.

In questo contesto va inquadrata la tecnica del «canguro»; i regolamenti di Camera e Senato, infatti, conferiscono al Presidente la possibilità di derogare allo schema procedurale consueto. In particolare, a norma dell’art. 85 del regolamento della Camera, qualora siano stati presentati ad uno stesso testo una pluralità di emendamenti, subemendamenti o articoli aggiuntivi tra loro differenti esclusivamente per variazione a scalare di cifre o dati o espressioni altrimenti graduate, il Presidente pone in votazione quello che più si allontana dal testo originario e un determinato numero di emendamenti intermedi sino all’emendamento più vicino al testo originario, dichiarando assorbiti gli altri. In altri termini, non si votano tutte le proposte emendative ma solamente alcune di esse, con l’effetto di determinare la preclusione o l’assorbimento delle altre e snellire notevolmente il procedimento. Lo stesso articolo consente al Presidente, inoltre, di modificare l’ordine delle votazioni quando lo reputi opportuno ai fini dell’economia o della chiarezza delle votazioni stesse.

Il regolamento del Senato contiene disposizioni più stringate, volte a conferire al Presidente unicamente il potere di modificare l’ordine delle votazioni (art. 102, comma quarto); tuttavia, la disposizione si interpreta da tempo nel senso di dare fondamento alla tecnica del «canguro», in modo analogo a quanto stabilito nel regolamento della Camera. Se, pertanto, entrambi i regolamenti accordano al Presidente di Assemblea ampi poteri nella gestione delle votazioni sugli emendamenti, restano nondimeno incerti i limiti cui questi soggiacciono. L’art. 85-bis del regolamento della Camera, ad esempio, vieta l’applicazione della norma che consente di modificare l’ordine delle votazioni nel caso di leggi costituzionali. Si pone quindi il problema dell’applicabilità di norme che velocizzano il procedimento legislativo e comprimono il diritto dei parlamentari di proporre modifiche al testo in discussione nei casi di disegni di legge particolarmente delicati, come ad esempio quelli che mirano a modificare la Costituzione. Ad ogni modo, la Giunta per il Regolamento del Senato, convocata ieri dal Presidente Grasso, si è pronunciata, a maggioranza, in favore della legittimità dell’uso della tecnica del «canguro» anche per l’esame dei disegni di legge in materia costituzionale.

Quale che sia l’opinione che ciascuno voglia maturare, è bene evidenziare che, in casi del genere, invocare il rispetto formale delle norme procedurali rischia di essere fuorviante. Da un lato, nessuno può vietare ai parlamentari di proporre emendamenti; se questi ammontano a diverse migliaia, però, difficile pensare che siano tutti realmente volti a migliorare il testo e non abbiano, invece, finalità ostruzionistiche. Di fronte ad un dibattito che si protrae lungamente su questioni procedurali, è pertanto necessario individuare soluzioni che consentano di deliberare, in un modo o nell’altro. D’altro canto, l’economia procedurale è un valore che deve comunque essere commisurato all’oggetto in esame; una riforma della Costituzione, in particolare, esige massima ponderazione e adeguati spazi per le opposizioni, tali da assicurare un confronto serio e costruttivo, indispensabile per scrivere le «regole del gioco».

Pubblicato in Uncategorized | Contrassegnato , , , , , , | Lascia un commento