L’immunità dei senatori. Istruzioni per l’uso

di Alessandro Gigliotti

Si è placata, almeno al momento, la polemica scoppiata nei giorni scorsi sull’immunità dei senatori. Come si ricorderà, la notizia dell’emendamento volto a ripristinare l’immunità per i componenti del nuovo Senato aveva suscitato i distinguo delle forze politiche di maggioranza e di opposizione, decisamente avverse. Nella seduta di oggi, la Commissione Affari costituzionali del Senato ha però approvato l’emendamento a larga maggioranza, chiudendo di fatto la questione.

Mantenere l’immunità per i membri del futuro Senato – il testo originario del disegno di legge non la prevedeva – appare una scelta del tutto congrua e pienamente condivisibile. Per spiegarne i motivi, è opportuno fare un passo indietro e dare conto dei contenuti dell’art. 68 della Costituzione, di cui si parla spesso a sproposito. A norma dell’art. 68, ai membri del Parlamento italiano sono assegnate due guarentigie: l’insindacabilità (primo comma) e l’inviolabilità (secondo e terzo comma, definita talvolta anche immunità). Ai sensi del primo comma, i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere per le opinioni espresse e per i voti resi nell’esercizio delle proprie funzioni. Si tratta di una forma di irresponsabilità giuridica, che tutela il parlamentare per tutti gli atti che questi compie nell’esercizio delle funzioni (non soltanto dichiarazioni e voti, ma anche disegni di legge, emendamenti, mozioni, interrogazioni, ordini del giorno e così via). Si tratta di una guarentigia volta ad assicurare libertà nell’esercizio del mandato, in assenza della quale il parlamentare sarebbe costantemente ricattabile anche in occasione di una semplice dichiarazione resa in Aula durante l’esame di un disegno di legge. Prevista in tutti i parlamenti moderni, l’insindacabilità spetta anche ai consiglieri regionali, ai giudici della Corte costituzionale e, con alcune limitazioni, anche ai componenti del Csm.

Diversa, invece, la guarentigia dell’inviolabilità, in base alla quale nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, ad arresto o detenzione, ad intercettazioni ed a sequestro della corrispondenza senza autorizzazione della Camera di appartenenza. L’unica eccezione, prevista dalla stessa disposizione costituzionale, è l’arresto a seguito di sentenza definitiva oppure nei casi di flagranza per un delitto per il quale è richiesto l’arresto immediato. A differenza dell’insindacabilità, l’inviolabilità è una misura di carattere processuale, nel senso che non esclude l’antigiuridicità del fatto ma preclude, temporaneamente, la perseguibilità dell’autore dell’illecito; inoltre, essa tutela il parlamentare per fatti estranei all’esercizio delle sue funzioni.

Ora, il disegno di legge del governo, nel riformare la composizione e le funzioni del Senato, manteneva per i senatori la guarentigia dell’insindacabilità – impossibile eliminarla – ma non quella dell’inviolabilità, che restava invece per i soli deputati. Cosa discutibile, questa, poiché nel momento in cui il Parlamento si compone di due Camere, le quali sono distinte ma chiamate entrambe – seppur in modo diverso – ad esercitare la funzione legislativa, non è possibile differenziare lo status dei suoi componenti, assegnando ai deputati una tutela maggiore rispetto a quella accordata ai senatori. Ciò per l’evidente ragione che, se i parlamentari necessitano di una tutela funzionale all’esercizio delle attribuzioni costituzionali, tale tutela deve spettare indistintamente a tutti e non solo ad una parte di essi. O la si accorda a tutti o la si elimina per tutti. Tertium non datur. Il fatto che i senatori siano al contempo consiglieri regionali o sindaci non muta la sostanza delle cose: essi sono tutelati in quanto membri del Parlamento. Si osservi, infatti, che le guarentigie non sono meri «privilegi» accordati ai singoli, come solitamente si pensa, bensì istituti previsti dalle Costituzioni di tutti gli ordinamenti contemporanei e volti alla tutela della funzione costituzionale assegnata all’organo. Le guarentigie, in altri termini, tutelano l’organo in quanto tale e non il singolo; proprio per tale ragione, esse sono indisponibili per il singolo e, quindi, irrinunciabili.

Si obietta, da parte di molti, che in tal modo ci sarebbero consiglieri regionali tutelati dall’immunità ed altri privi della guarentigia. Medesimo discorso si applica ai sindaci, lamentando una presunta disparità di trattamento. Tuttavia, è bene ricordare che il principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 della Costituzione, impone di trattare in modo eguale situazioni eguali ed in modo diverso situazioni diverse. Ebbene, i consiglieri-senatori (e, parimenti, i sindaci-senatori) avranno un trattamento diverso dai loro colleghi in quanto avranno un ruolo ben diverso rispetto ad essi, essendo componenti del Parlamento. Semmai, si può discutere dell’opportunità di prevedere il doppio incarico per costoro, che dovranno svolgere contemporaneamente l’ufficio di consigliere o sindaco e quello di parlamentare.

La Commissione Affari costituzionali, approvando l’emendamento che mantiene l’inviolabilità dei senatori, ha giustamente posto rimedio alla discrepanza contenuta nel testo del Governo, accogliendo la tesi per cui se l’inviolabilità deve esistere, essa deve essere accordata a tutti i parlamentari. Qualora si ritenga, per contro, che sia inopportuno accordare siffatta guarentigia a sindaci e consiglieri regionali, sarebbe a quel punto necessario ripensare l’articolazione del nuovo Senato, prevedendo l’incompatibilità con la carica di consigliere regionale ed eliminando al contempo la presenza dei sindaci dall’organo.

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Il Senato respinge le dimissioni delle senatrici Bignami e Mussini

di Alessandro Gigliotti

Nella seduta antimeridiana di oggi, il Senato della Repubblica ha respinto a larga maggioranza la richiesta di dimissioni dalla carica parlamentare presentata dalle senatrici Laura Bignami e Maria Mussini, iscritte al gruppo misto ma provenienti dal Movimento 5 Stelle. Come si ricorderà, le due senatrici erano state espulse dal Movimento – e quindi anche dal gruppo parlamentare – a seguito della decisione di rassegnare le dimissioni al Presidente del Senato in segno di disappunto per l’espulsione di altri quattro senatori dal medesimo gruppo, dovuta a profondi contrasti intercorsi al suo interno. In virtù del voto di oggi, le dimissioni sono dunque rientrante e le due senatrici restano a tutti gli effetti componenti del Senato.
Ma perché mai le dimissioni spontanee di un parlamentare devono essere soggette al voto dell’Assemblea? La norma, apparentemente bizzarra, risponde invece ad un principio cardine del diritto parlamentare, per il quale ogni singola assemblea decide in via definitiva sulla propria membership. Questo significa che la Camera è chiamata ad esprimersi con un voto non soltanto nei casi di ineleggibilità, incompatibilità e decadenza, ma anche di fronte a dimissioni spontanee, benché poi nella prassi esistano delle eccezioni, come ad esempio a seguito di dimissioni per incompatibilità; in tali casi, infatti, l’assemblea è solita prendere atto senza procedere a votazione formale. In secondo luogo, sottoporre a votazione le richieste di dimissioni significare tutelare la libertà del singolo parlamentare, che potrebbe essere indotto a rassegnare le dimissioni a seguito di pressioni o minacce. Il voto dell’assemblea, pertanto, assume una valenza di garanzia della libertà nell’esercizio del mandato.
Certamente, la previsione di un voto del plenum rischia, in talune circostanze, di affidare alla forza del numero la decisione su un atto di carattere personale, tanto più se si tiene presente che la votazione sulle dimissioni di un parlamentare si svolge a scrutinio segreto. Infatti, può ben accadere che l’assemblea decida di respingere le dimissioni di un proprio componente per motivi di tattica politica o, comunque, non riconducibili alla funzione garantista di cui si è detto. Più in generale, si tenga presente che, in base ad una norma di correttezza costituzionale, le Camere tendono a respingere in prima battuta le dimissioni dei propri componenti anche quando queste sono rassegnate per motivi di carattere strettamente personale. La medesima norma esige, però, che se l’interessato ripresenta le dimissioni, queste vengano accolte.
Nel caso odierno, quasi tutti i gruppi parlamentari hanno dichiarato di respingere le dimissioni delle due senatrici non soltanto in segno di solidarietà, ma altresì per manifestare il proprio dissenso nei confronti della vicenda che le ho originate. È probabile che la questione si chiuda qui. Qualora però le due senatrici decidessero di insistere nel loro gesto, difficilmente l’Aula di Palazzo Madama potrebbe non tenerne conto. La prerogativa dell’Assemblea sulla propria membership non può trasformarsi in una sorta di camicia di forza, tale da costringere un parlamentare a restare in carica contro la sua volontà. Un conto è tutelare la libertà del mandato parlamentare, ai sensi dell’art. 67 della Costituzione, altra cosa sarebbe invece ipotizzare l’esistenza di un dovere di mantenere una carica che, liberamente, si è deciso di lasciare.

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Elezioni europee al rush finale, ma senza pathos

di Vincenzo Iacovissi

Ultimi giorni di campagna elettorale prima che le urne decretino i verdetti relativi alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.

Anche questa volta, come accade ormai dal 1979 – primo anno di elezione diretta dell’assemblea di Strasburgo –, la propaganda elettorale si svolge, nel nostro Paese, in un clima di disaffezione e disinteresse da parte dei cittadini, e con una sostanziale distanza dai temi dell’Unione europea.

La circostanza appare almeno singolare, laddove si tenga conto della profonda influenza che la normativa prodotta dalle istituzioni europee esercita sulla vita quotidiana di cittadini e stranieri dimoranti nel Vecchio continente. È infatti pacifico che magna pars delle legislazioni nazionali rifletta disposizioni emanate sottoforma di direttive e/o regolamenti dell’Unione europea, con una crescente tendenza alla restrizione delle competenze in materia da parte degli Stati membri.

Purtuttavia, in Italia – ma non solo, purtroppo – le elezioni europee rappresentano sovente l’occasione per un confronto su tematiche di carattere nazionale, oppure si trasformano in referendum di approvazione/sfiducia nei confronti del Governo oppure di un preciso esponente politico. È accaduto in passato, sta accadendo anche oggi.

In particolare, la campagna per le europee 2014 era nata sotto i migliori auspici di partecipazione e coinvolgimento grazie alla scelta, compiuta dalle principali formazioni politiche, di indicare preventivamente il proprio candidato alla guida della Commissione, organo cruciale per l’intera architettura dell’Unione sia dal lato esecutivo che dell’iniziativa legislativa. Dinanzi a tale rilevante novità, quindi, ci si sarebbe aspettati un maggiore interesse, anche in ragione della particolare delicatezza “temporale” di questa competizione, che giunge in uno dei periodi più difficili per l’integrazione europea dal punto di vista economico, sociale e culturale.

Al contrario, nulla di ciò sembra stia avvenendo, ed il dibattito politico italiano risulta interamente avviluppato su vicende – da quelle giudiziare a quelle inerenti specifici provvedimenti fiscali, per giungere a vere e proprie boutade dal sapore elettoralistico – che poco o nulla hanno a che vedere con i destini dell’Europa e dei suoi cittadini.

Come noto, il Parlamento europeo ha conosciuto, nell’ultimo decennio, uno sviluppo notevole dei propri poteri di decisione, divenendo – a partire dal Trattato di Lisbona del 2007 – sede naturale della legislazione insieme al Consiglio, e non più in posizione di subalternità come in passato. Anche questa circostanza dovrebbe indurre elettori e forze politiche nazionali ad assumere un atteggiamento diverso in campagna elettorale, privilegiando tematiche di competenza dell’Unione rispetto a questioni locali, soprattutto in virtù del carattere decisivo che l’esito di queste elezioni potrà avere sul futuro stesso del processo intrapreso a Roma nel 1957 e che – seppur con notevoli deficit – ha comunque assicurato al continente un settantennio di pace dopo la catastrofe bellica, associato ad una profonda integrazione economico-commerciale unica al mondo per dimensione ed intensità.

Si dirà che la disaffezione è normale in un momento di crisi duratura e profonda come quella attuale. Ma non è da condividere un atteggiamento troppo pigro o distaccato da parte di chi, presentando candidati per un seggio al Parlamento europeo, perda di vista l’obiettivo della propria iniziativa, spostando l’attenzione su altro, spesso poco attinente o financo risibile.

Così facendo, si favorisce il riflusso nel privato di elettori scontenti e non si contribuisce ad evidenziare problemi e ricette adeguate dell’Unione europea. In altri termini, si perde una grossa occasione per esprimersi su un momento che avrà ricadute inevitabili sulla vita di ciascuno di noi.

Mancano solo pochi giorni alla fine della campagna elettorale, le ore in cui probabilmente molti cittadini formeranno la propria intenzione di voto da esprimere domenica prossima nelle urne. Auguriamoci che questo rush finale, sinora privo di particolari emozioni, si trasformi in una volata appassionante e ricca di contenuti, senza troppe spallate tra i concorrenti, perché sotto il tabellone dell’arrivo c’è il futuro dell’Europa e di tutti noi.

In tempo di “giro d’Italia”, va bene così.

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Abolite le province? No, ma quasi

di Alessandro Gigliotti

I principali quotidiani di oggi riportano, pressoché unanimi, la notizia dell’abolizione delle province, in virtù del voto espresso nella serata di ieri dal Senato della Repubblica. La notizia, però, è vera solo in parte. Anzitutto, il Senato ha licenziato un disegno di legge, apportando però numerose modifiche rispetto al testo uscito dalla Camera dei deputati; pertanto, servirà un ulteriore passaggio a Montecitorio per una lettura che, comunque, è prevedibile arrivi in tempi brevissimi. In secondo luogo, il provvedimento non abolisce del tutto le province, ma ne disciplina organizzazione e poteri in via provvisoria, in attesa di una riforma costituzionale che ne sancisca la definitiva soppressione.
Occorre a tal proposito osservare che l’art. 114 della Costituzione afferma che la Repubblica è costituita da comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato. Gli enti territoriali minori, tra cui le medesime province, sono autonomi, dotati di propri statuti e di poteri e funzioni stabiliti secondo i principi fissati dalla Costituzione. In virtù di tale copertura costituzionale, non è quindi possibile cancellare le province con legge ordinaria; serve una legge costituzionale, per la cui approvazione sono richiesti tempi più lunghi, ben quattro letture parlamentari (due per ciascuno dei rami del Parlamento) e un possibile referendum popolare. L’imminente scadenza elettorale amministrativa, d’altro canto, richiedeva una soluzione immediata, per evitare di dover rinnovare una settantina di amministrazioni provinciali in scadenza, alcune di esse commissariate.
Come si ricorderà, infatti, il primo passo verso il superamento del livello amministrativo provinciale era stato fatto dal Governo Monti, che aveva dapprima circoscritto le competenze delle province, eliminando al contempo le giunte e prevedendo l’elezione indiretta degli organi istituzionali, e poi ne aveva preventivato un accorpamento, per ridurre le oltre 100 province a meno della metà. In attesa di una riforma organica, era stato previsto il commissariamento degli enti i cui organi elettivi fossero andati in scadenza nel 2012 e nel 2013. Con una sentenza della scorsa estate, tuttavia, la Corte costituzionale aveva (giustamente) dichiarato incostituzionali le norme in questione, poiché adottate con decreto-legge, strumento ritenuto inidoneo a riforme strutturali di natura istituzionale. La sentenza riportava il tutto improvvisamente alla situazione ex ante ed apriva alla prospettiva di nuove elezioni, in vista della scadenza di organi elettivi e commissari.
Il legislatore, partendo quindi da zero, ha ripreso buona parte delle linee dettate dai precedenti interventi normativi. Il disegno di legge disciplina le province in attesa di una riforma costituzionale del Titolo V della Seconda Parte della Costituzione volta alla loro soppressione. Nel frattempo, ne ridisegna le competenze e l’organizzazione istituzionale. Gli organi delle province saranno il Presidente, il Consiglio e l’Assemblea dei sindaci. Tuttavia, a differenza non passato non soltanto scompare la Giunta, ma è prevista altresì l’elezione indiretta e la gratuità degli incarichi. Il Presidente è eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali della provincia tra i sindaci il cui mandato scada non prima di diciotto mesi dalla data delle elezioni. Il Consiglio è eletto dai sindaci e consiglieri comunali, i quali sono anche i titolari dell’elettorato passivo. In altri termini, i rappresentanti degli enti intermedi saranno una ristretta componente degli amministratori comunali. Nel frattempo, i Presidenti, i commissari e le giunte resteranno in carica sino al 31 dicembre per lo svolgimento dell’ordinaria amministrazione, anche in tal caso a titolo gratuito.
Infine, il disegno di legge disciplina le città metropolitane, enti previsti dalla legge e, a partire dal 2001, anche dalla Costituzione, mai concretamente istituiti. Le città metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria, cui si aggiunge Roma Capitale, sono costituite nei territori delle rispettive province, andando di fatto a sostituire il vecchio ente. I suoi organi istituzionali sono eletti a suffragio indiretto e gli incarichi sono svolti a titolo gratuito. A differenza della provincia, però, al vertice non c’è un organo monocratico elettivo: il sindaco metropolitano è di diritto il sindaco del comune capoluogo.
In definitiva, l’approvazione del disegno di legge Delrio appare come un importante tassello nel percorso che porterà ad un nuovo assetto dell’ordinamento degli enti locali, dal quale pian piano spariranno le province mentre entrano a pieno titolo le città metropolitane.

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Le “quote rosa” che fanno tremare il Parlamento

di Francesca Ragno

Parafrasando un noto slogan dei movimenti femministi sarebbe il caso di dire “tremate tremate le quote rosa sono tornate”, infatti nelle ultime settimane sia la Camera dei deputati che il Senato della Repubblica sono stati impegnati in un’accesa discussione politica sulla necessità di inserire o meno sia  nella nuova legge elettorale per le elezioni politiche che per le elezioni europee, disposizioni per garantire la candidatura di un maggior numero di donne auspicando anche  un maggior numero di elette.

Se proprio mentre scriviamo il Senato della Repubblica ha approvato in prima lettura il testo del disegno di legge per garantire l’equilibrio di genere per le elezioni europee, è senza dubbio sulla legge elettorale per le politiche, il cosiddetto Italicum, e sull’accesa battaglia condotta dalle deputate e dai movimenti delle donne che si sono accesi i riflettori della stampa nazionale, solo alcuni giorni fa.

Quote rosa, parità di genere, 50&50, alternanza in lista: sono espressioni che sono ricorse spesso sulle pagine di giornale e nei tg, spesso però con scarsa chiarezza e tanta disinformazione. Cerchiamo quindi di capire perché le deputate hanno dato vita a un dibattito parlamentare dai toni sostenuti e hanno protestato vestendosi di bianco, come simbolo di unità tra destra e sinistra, al di là dei partiti.

Facciamo un passo indietro e torniamo a 9 anni fa. Il Parlamento sta approvando il tanto famigerato Porcellum e allora l’onorevole Stefania Prestigiacomo è ministra per le pari opportunità. Tutti ricorderanno le sue lacrime in aula quando la Camera bocciò l’emendamento presentato con il parere favorevole dell’allora Governo Berlusconi che garantiva la presenza di almeno il 15% di donne nelle liste (ovvero l’obbligo di candidare una donna ogni tre uomini) introducendo sanzioni pecuniarie per la liste che non avessero rispettato tale rapporto. L’emendamento votato a scrutinio segreto fu respinto con 452 no e 140 sì, con il voto contrario dell’allora opposizione che chiedeva sanzioni maggiormente deterrenti  per i partiti e da parte di alcuni “franchi tiratori” della maggioranza di centro-destra, propositrice dell’emendamento stesso. Ironia della sorte lo stesso Governo che due anni prima aveva approvato la riforma dell’articolo 51 della Costituzione proprio per dare copertura costituzionale al possibile inserimento di norme di riequilibrio di genere che erano state bocciate dalla Corte Costituzionale nel 1995, alla prima occasione utile, non dà attuazione al principio di pari opportunità.

Nel 2014 gli estensori dell’Italicum, visto anche una mutata sensibilità in materia e un riscoperto attivismo delle associazioni femminili, inseriscono già nel testo base una disposizione per il riequilibrio di genere, un passo in avanti rispetto al Porcellum dove non vi era nessuna norma che potesse identificarsi con quelle chiamate giornalisticamente “quote rosa”.

Nel testo licenziato dalla Camera dei deputati e che ora passa all’esame del Senato si legge: “A pena di inammissibilità, nel complesso delle candidature circoscrizionali di ciascuna lista nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore al 50 per cento con arrotondamento all’unità superiore; nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali non possono esservi più di due candidati consecutivi del medesimo genere”.

L’italicum prevede circoscrizioni regionali divise a loro volta in collegi plurinominali. Per esempio la Regione Lazio in totale elegge 57 deputati. Quindi ogni partito presenterà nel complesso un numero di candidati pari a 57 unità: questi 57 candidati dovranno essere per metà uomini e per metà donne. Quindi il Pd per esempio candiderà in tutto il Lazio 29 donne e 28 uomini e deciderà come distribuirli nei collegi plurinominali. In alcune liste di collegio ci potranno essere più donne in altre più uomini, perché per arrivare al 50% di candidature di ogni genere si dovrà andare a compensazione tra collegi. La cosa certa è che non ci potranno essere collegi che avranno liste totalmente mono-genere perché in ogni caso ogni due candidati dello stesso genere, si dovrà inserire un candidato del sesso opposto. Le donne quindi dovranno essere candidate e dovranno esserlo in numero eguale ai colleghi uomini.

Cos’è che allora ha fatto alzare le barricate alle deputate sia di centro-destra che di centro-sinistra e ha fatto scaldare i motori alle associazioni femminili? Se la disposizione di riequilibrio di genere illustrata garantisce una parità di fatto nelle candidature quindi ai nastri di partenza per fare un esempio sportivo, non garantisce però una parità di elezione, quindi una parità di risultato. Non si porterebbe a compimento quello che per i movimenti delle donne è la parità di genere o democrazia paritaria: ovvero il 50% di donne e uomini sia nelle assemblee elettive e negli organi di Governo. Il timore delle deputate è che in collegi molto piccoli con liste corte con un numero di eletti che vanno dai 2 ai 6 a seconda dei casi a farla da padrone siano gli uomini, più forti solitamente nei partiti e quindi con una maggiore forza contrattuale di farsi candidare capolista e avere la certezza dell’elezione.

Il dibattito parlamentare o meglio la battaglia è stata incentrata su una serie di emendamenti che potevano garantire alle donne la certezza dell’elezione: la candidatura obbligatoria nelle liste in maniera alternata tra uomini e donne oppure l’alternanza obbligatoria trai capolista nei diversi collegi di una circoscrizione. Tecniche queste elettorali di riequilibrio di genere che avrebbero di fatto sì garantito il risultato di avere una Camera dei deputati paritaria tra uomini e donne, ma stando alla giurisprudenza costituzionale avrebbero potuto trovare uno stop proprio dalla Consulta. Dal 1995 al 2010 la Corte Costituzionale ha certamente mutato il suo orientamento verso le disposizioni elettorali per favorire le pari opportunità, ma ha tenuto fermi alcuni principi: la necessità di un’azione di crescita culturale all’interno dei partiti politici, i vivai da cui si forma la classe politica, la netta separazione tra garanzia di risultato e uguaglianza di opportunità e tenuta ferma la libertà dell’elettore il promuovere il riequilibrio di genere, ma non imporlo.

Quanto previsto nell’Italicum va in questo senso: garantisce alle donne l’opportunità di essere candidate e fa sì che i partiti possano dimostrare la loro virtuosità in tema di parità di genere. Le deputate agguerrite per poter difendere i “loro” posti in lista e la “loro” elezione, forse dovrebbero portare avanti una battaglia culturale soprattutto nelle stanze dei partiti, nelle segreterie e nelle direzioni e farsi valere come donne di potere con pari capacità contrattuali e forza elettorale dei loro colleghi di partito e non solo come dei corpi, magari dei bei corpi, da mettere nelle liste elettorali. Sarebbe bello che per tutte le donne la stessa unità di intenti e la stessa protesta bipartisan le deputate la portassero avanti magari per garantire  a tutte le italiane parità retributiva nel lavoro, adeguata assistenza sanitaria anche rispetto alla scelta di portare avanti o no una gravidanza, contro le dimissioni in bianco o per avere più asili nido come in tutta Europa. Non si può più aspettare, se non ora quando?

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Riforma elettorale e riforma del Senato. Conciliarle è possibile

di Alessandro Gigliotti

In queste ore, salvo ulteriori rinvii, la Camera dei deputati tornerà ad esaminare la proposta di legge di riforma elettorale (c.d. Italicum). Chiusa la parentesi necessaria per risolvere la crisi di governo, i plenipotenziari dei principali partiti sono alle prese con i tanti emendamenti presentati al testo e, soprattutto, con quelli che puntano a sospendere l’entrata in vigore della nuova legge.

Le ragioni che spingono ad inserire nel testo alcune disposizioni di tale portata non sono del tutto prive di fondamento e, anzi, la logica vorrebbe che la legge elettorale fosse esaminata ed approvata solamente dopo la riforma del Senato. Il perché è presto detto: se occorre mettere mano al bicameralismo per superare l’attuale regime paritario tra i due rami del Parlamento – il che presuppone, peraltro, di ritoccare diversi articoli della Seconda Parte della Costituzione -, conviene procedere prima su tale aspetto e solo dopo, in stretta correlazione, definire le modalità di elezione di deputati e senatori. Approvare prima la legge elettorale e poi approntare una riforma del bicameralismo significherebbe seguire una scansione del tutto illogica e preventivare un ulteriore intervento normativo per adeguare la prima alla seconda. In poche parole, significherebbe mettere il carro davanti ai buoi.

Nell’ipotesi in cui non si voglia – quale che sia la ragione – modificare l’assetto del bicameralismo, invece, il discorso cambia drasticamente: di per sé, una riforma elettorale non è giuridicamente indispensabile, poiché la legge attualmente vigente, dopo la sentenza della Corte costituzionale, è già operativa e, giova ribadirlo, pienamente conforme al quadro costituzionale. Politicamente, tuttavia, il discorso è ben diverso e, in tale prospettiva, il Parlamento è certamente legittimato ad approvare una nuova legge elettorale, purché questa sia non soltanto in linea con la recentissima giurisprudenza della Corte, ma anche e soprattutto con l’assetto parlamentare italiano. Il bicameralismo paritario, infatti, impone omogeneità politica tra le due Camere, le quali sono entrambe chiamate a conferire la fiducia al Governo, e pertanto omogeneità tra le due leggi elettorali, che devono essere strutturate in modo da agevolare tale esito e non ostacolarlo, come faceva la legge Calderoli.

Si potrebbe giustamente obiettare che l’iter per l’approvazione della nuova legge elettorale è in uno stadio avanzato e che sarebbe sbagliato perdere l’occasione in attesa della riforma costituzionale, che richiede tempi lunghi. Le condizioni che ci sono oggi potrebbero non esserci domani. D’accordo. Qui entrano in gioco i ben noti emendamenti che propongono un differimento dell’entrata in vigore della legge, qualora approvata. Ma quali sono in concreto le opzioni sul campo?

Prima ipotesi: si approva la legge che modifica il sistema elettorale di Camera e Senato, ma se ne subordina l’entrata in vigore alla riforma costituzionale del Senato. La soluzione è controproducente per l’evidente ragione che in tal modo gli effetti della riforma sono condizionati ad un evento futuro ed al momento non ponderabile. Se la riforma costituzionale del bicameralismo non dovesse farsi, per qualsivoglia motivo, la nuova legge elettorale scomparirebbe e si andrebbe a votare con quella attuale. Se invece andasse in porto, bisognerebbe comunque mettere mano all’Italicum, modificando le norme relative a Palazzo Madama che, a quel punto, non sarebbero adattabili al nuovo assetto.

Seconda ipotesi: l’entrata in vigore della nuova legge è sospesa per 12-18 mesi, tempo più che sufficiente per riformare il bicameralismo. Anche questa soluzione ha degli inconvenienti, poiché si subordina l’entrata in vigore non già ad un fatto ben preciso, ma ad una mera scadenza temporale. Sicché, se per ipotesi si dovesse votare entro l’anno o prima, si andrebbe alle urne con la legge attuale.

Terza ipotesi: si procede con la riforma elettorale della Camera e si mette da parte il Senato, nella prospettiva di una riforma imminente del bicameralismo. Soluzione peggiore delle prime due e in assoluto da scartare, poiché diversifica enormemente le due leggi elettorali senza avere la certezza di giungere ad una riforma costituzionale che lo giustificherebbe. In caso di voto, si andrebbe alle urne con due leggi elettorali molto disomogenee, rischiando concretamente un esito analogo a quello dello scorso anno: un parlamento senza maggioranza e ingovernabile.

In conclusione. Se proprio si vuole accelerare l’iter per modificare la legge elettorale, l’unica soluzione sensata è quella di lavorare esclusivamente sul sistema di elezione per la Camera, prevedendo al contempo che la legge entri in vigore solo con la riforma costituzionale del Senato. Solo così si giustifica un differimento dellentrata in vigore della riforma. In alternativa, meglio adottare una legge elettorale per entrambi i rami del Parlamento ragionando de iure condito, cioè sul testo costituzionale attualmente vigente. «Di doman», infatti, – diceva Lorenzo de’ Medici – «non c’è certezza». Delle riforme costituzionali, neppure.

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Il Governo Renzi tra continuità e rottura

di Vincenzo Iacovissi

Incassata la fiducia della Camera, dopo quella del Senato, l’attività del nuovo Esecutivo, guidato da Matteo Renzi, può prendere avvio. Come noto, infatti, il conferimento della fiducia rappresenta la condizione imprescindibile affinché ogni Governo possa permanere in carica, seppur già nel pieno delle funzioni al momento del giuramento nelle mani del Capo dello Stato.

Fin qui le norme della Costituzione. La formazione del Consiglio dei Ministri, tuttavia, riveste un significato politico che va ben oltre l’angusto spazio che la carta fondamentale le assegna.

L’intera fase di soluzione delle “crisi di governo” è prodotto di stratificazioni successive di convenzioni, prassi e consuetudini che contribuiscono a modellarne le peculiarità, conferendole un carattere di flessibilità capace di adattarsi ai mutamenti.

La nascita del Governo Renzi può ben inquadrarsi dentro questa cornice di flessibilità, in quanto le modalità che l’hanno accompagnata spaziano tra elementi di rottura e fattori di continuità.

Le rotture, indubbiamente, sono oggetto di maggiore attenzione, grazie alla capacità del nuovo premier di porsi, dinanzi all’opinione pubblica e alle stesse istituzioni, più come un “Sindaco d’Italia” che come un classico Primo Ministro. Da ciò, consegue, lo stile smart assunto da Renzi nelle dichiarazioni pubbliche, nella scelta della squadra di governo con notevole presenza femminile e significativa rappresentanza di “giovani”, nel modo di porsi dinanzi alle Assemblee parlamentari al momento della richiesta del voto di fiducia.

Agli osservatori più attenti non saranno, però, sfuggiti, taluni fattori di continuità. Oltre alle modalità di avvicendamento con il precedente Gabinetto, che ricordano molto da vicino le crisi extraparlamentari tipiche del primo quarantennio repubblicano, anche la stessa ripartizione degli incarichi ministeriali – così come la prossima individuazione di vice ministri e sottosegretari –, ha seguito criteri di ponderazione ed equilibrio connaturati alle esperienze di Esecutivi di coalizione.

Il Governo Renzi, pertanto, si colloca ai nastri di partenza con un’indubbia carica di novità rispetto ai suoi predecessori, vicini e lontani, ma non potrà non essere soggetto alle medesime regole scritte e, soprattutto, non scritte della politica. Sarà interessante verificare la capacità di mediazione e sintesi tra le diverse componenti, sia dal punto di vista programmatico che funzionale, così come monitorare il bilanciamento tra lo slancio riformista propugnato dal segretario PD e le costanti tendenze alla conservazione del sistema istituzionale e burocratico italiano.

Tra le sfide più importanti ci sarà, ovviamente, quella elettorale. Si ripartirà dal testo sul c.d. Italicum, frutto dell’accordo Renzi-Berlusconi ed esteso, con qualche aggiustamento, al segretario del Nuovo Centro Destra, Angelino Alfano. A giudicare dalle dichiarazioni rilasciate dai principali leader di coalizione in queste ore, la riforma del meccanismo di voto sarà agganciata alla trasformazione del Senato da Assemblea elettiva a Camera delle autonomie, con tutto ciò che ne potrà derivare in termini di tempi e modi del percorso di innovazione istituzionale.

La revisione dell’assetto territoriale della Repubblica, con l’abolizione delle Province e la manutenzione del Titolo V della Costituzione faranno il resto. Non dimenticando le annunciate misure di riduzione dei c.d. “costi della politica”.

Su questi e molti altri temi il Governo Renzi si confronterà con opposizioni parlamentari molto rilevanti e dotate di seguito popolare. Quanto ed in quale misura le istituzioni italiane saranno in grado di adattarsi al nuovo scenario, collocandosi al centro dei processi in atto ovvero resistendo ad essi, è uno degli aspetti sui quali Ballot concentrerà il proprio interesse, seguendo la massima anglosassone del “sincero esperimento” o della “benevola attesa” nei confronti di ogni nuovo Esecutivo.

Buon lavoro.

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Un falso scoop. Le consultazioni “preventive” del Presidente Napolitano

di Alessandro Gigliotti

Quirinale, giuramento del governo Monti

«Inerisce tuttavia alla carica di Capo dello Stato parlamentare la possibilità di elevarsi in periodi di crisi a reggitore dello Stato. Questa affermazione può sembrare a prima vista contraddetta dalla constatazione che negli ordinamenti parlamentari o non vi è alcuna esplicita statuizione sulla possibilità e sul modo di superare situazioni critiche, oppure il rimediarvi è attribuito al Parlamento al Governo godente la fiducia del Parlamento, e che solo in rari casi è previsto che il Capo di Stato in persona debba provvedervi. Tuttavia, quando si afferma che il Capo di Stato, in ipotesi di crisi del sistema parlamentare, è designato a reggere lo Stato si intende dire che nelle ipotesi in cui i rimedi contro le crisi canonizzati in testi costituzionali non possano trovare attuazione (perché, a esempio, non sia materialmente possibile adunare i parlamenti cui spetta di risolvere o di partecipare alla soluzione) spetta al Capo dello Stato di sostituirsi al Parlamento e provvedere con ministri da lui nominati e godenti la sua fiducia (invece di quella del Parlamento)».

Con queste parole si esprimeva, oltre cinquant’anni fa, uno dei più autorevoli costituzionalisti italiani, Carlo Esposito, nella nota voce enciclopedica in cui egli elaborava la teoria del Capo dello Stato come reggitore dell’ordinamento nei momenti di crisi. Le parole di Esposito sono di grande attualità per due ordini di motivi: anzitutto, perché la teoria si attaglia pienamente alla crisi istituzionale che l’ordinamento italiano sta vivendo negli ultimi vent’anni; in secondo luogo, perché sembra quasi una risposta al polverone sollevato dai quotidiani in relazione alle «consultazioni» tra Napolitano e Monti avvenute nell’estate del 2011.

Il brano riportato si inserisce, com’è noto, in una ricostruzione complessiva dell’organo che, per non tediare eccessivamente il lettore, non possiamo sintetizzare in poche righe e che, peraltro, non è condivisibile in tutto e per tutto. Ciononostante, le parole di Esposito riproducono un aspetto peculiare del modello parlamentare, nel quale il Capo dello Stato conosce, nei momenti di crisi istituzionale, un incremento dei suoi poteri di misura proporzionale all’entità della crisi stessa, al punto da richiedere addirittura, in casi eccezionali, che egli diventi il reggitore dello Stato. In tempi più recenti, altri studiosi italiani hanno descritto questa particolare situazione politico-istituzionale ricorrendo all’efficace metafora della fisarmonica: i poteri del Presidente della Repubblica italiano si espandono e si restringono come il mantice di una fisarmonica a seconda del grado di minore o maggiore stabilità del sistema. Quanto detto spiega, ad esempio, la torsione presidenzialista del settennato di Scalfaro e degli ultimi mesi del primo settennato di Napolitano, quest’ultimo addirittura rieletto contro una prassi che andava in senso diametralmente opposto.

Nel quadro descritto, parlare di «colpo di Stato» o di «complotto» per condurre alla nascita di un nuovo governo appare evidentemente improprio. Basti semplicemente pensare al fatto che la crisi politica era in corso già da tempo, a seguito della frattura tra il Presidente del Consiglio e la componente finiana culminata nella votazione fiduciaria del 14 dicembre 2010, e che la crisi economica era esplosa proprio in quel periodo. Di fronte all’inazione della politica, un Capo dello Stato accorto e lungimirante non poteva che verificare la sussistenza di soluzioni alternative per guidare il Paese in un momento in cui, giova ricordarlo, non era possibile ricorrere ad elezioni anticipate; un governo di larghe intese, autorevole e gradito in Europa, appariva a molti osservatori come la via obbligata per sopperire ad una crisi politica ormai in atto.

In sostanza, chi non comprende la portata dell’azione di Napolitano dall’estate del 2011 ad oggi evidentemente non coglie né la particolare natura dell’organo costituzionale posto al vertice dell’ordinamento né l’eccezionalità del momento che l’ordinamento italiano stava – e sta tuttora – vivendo. Quanto al primo aspetto, basti osservare che il Capo dello Stato italiano non può essere inquadrato in uno schema rigido ed immutabile, costantemente valido; il suo ruolo di garante della Costituzione esige una flessibilità dei suoi poteri che gli consentano di modularli a seconda del contesto e delle finalità da perseguire. Quanto al secondo, è sufficiente scorrere la cronaca politica di quel tempo per notare che la maggioranza di centro-destra era estremamente sfilacciata e ridotta a pochissimi seggi di vantaggio rispetto alle opposizioni; la crisi economica era diventata insostenibile e l’andamento del differenziale sui titoli decennali tedeschi era tale da esporre il Paese al rischio concreto dell’insolvenza. Un contesto la cui eccezionalità richiedeva di ipotizzare prontamente un piano B, da attuare nel momento in cui la maggioranza si rivelasse non più in grado di guidare il Paese o la crisi economica fosse di una tale portata da richiedere misure drastiche ed urgenti, in accordo con i partner europei. Ebbene, la storia ci dice che entrambe le condizioni si sono puntualmente verificate.

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Porcellum, la sentenza della Corte al microscopio: a) il premio di maggioranza

di Gabriele Maestri

La giurisprudenza della Corte costituzionale di quest’anno si è aperta senza dubbio con una delle pronunce più attese e più delicate degli ultimi anni: in materia elettorale, peraltro, è difficile che si ripresenti un’occasione di riflessione e confronto dello stesso peso. Anche per questo, la sentenza n. 1 del 2014 merita di essere analizzata a fondo: Ballot analizzerà separatamente le tre questioni cardine – sul premio di maggioranza, sulle liste bloccate e sulla continuità del Parlamento – cercando di valutare ogni implicazione possibile. Si è scelto di sacrificare un quarto punto, in realtà pregiudiziale a tutti gli altri (l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, in base all’ampiezza dell’oggetto del giudizio instaurato da Aldo Bozzi): si tratta di un passaggio fondamentale per i costituzionalisti, ma non lo tratteremo qui solo perché attiene più al procedimento davanti alla Consulta che alla materia strettamente elettorale.

* * *

cortecostituzionaleChe uno dei punti più critici della legge elettorale così come configurata dalla legge n. 270/2005 fosse il premio di maggioranza era chiaro da tempo: se non altro, la Corte aveva invitato a riflettere più volte su quel punto. Lo aveva fatto, per l’esattezza, in occasione di due decisioni sull’ammissibilità di quesiti referendari: la prima volta nel 2008, per i cd. “quesiti Guzzetta-Segni” (ammessi dalla Corte) e la seconda nel 2012, per i “quesiti Morrone-Parisi-Castagnetti-Palumbo”, boccianti invece dai giudici della Consulta. In entrambi i casi, le sentenze – nn. 15 e 16 del 2008 e n. 13 del 2012 – si prendevano la briga di segnalare al Parlamento «l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi».

Nelle due diverse occasioni, la Corte aveva negato di poter dare «un giudizio anticipato di legittimità costituzionale» in sede di vaglio dei quesiti referendari – e la valutazione viene replicata nella prima sentenza del 2014 – salvo poi rivolgere un monito al Parlamento che suonava come una dichiarazione “spuntata” di incostituzionalità. Parte della dottrina aveva criticato l’atteggiamento ambiguo del giudice delle leggi, nel ruolo di chi «vede ma non provvede» (l’espressione è di Marco Croce), denunciando la possibilità di un «grado di distorsione in concreto» inaccettabile, ma rifiutandosi di trarne le conseguenze. In ogni caso, il Parlamento non ha colto l’invito, né dopo il 2008, né dopo il 2012; e, a ben guardare, non ha saputo muoversi nemmeno nell’anno appena finito, dopo che i due presidenti della Corte (prima Franco Gallo e poi Gaetano Silvestri) avevano pubblicamente ribadito che i sospetti di incostituzionalità sul Porcellum, specie sul premio di maggioranza, erano per lo meno tangibili e avrebbero potuto provocare una reazione della Consulta alla prima occasione utile. Cioè la decisione della questione originata dal “ricorso Bozzi”.

senato31Su queste premesse, la Corte ha rilevato che l’assenza della soglia per far scattare il premio di maggioranza è «tale da trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea». Il problema, dunque, sarebbe la distorsione che il meccanismo produrrebbe nella trasformazione dei voti in seggi. Una distorsione teorica, certo, ma anche concreta, visto che tanto nel 2006 quanto nel 2013 a fare la differenza tra i primi e i secondi arrivati sono state poche migliaia di voti: al primo uso del Porcellum la coalizione di Prodi ebbe il premio per un microscarto su quella di Berlusconi, l’anno scorso «Italia. Bene comune» di Bersani ha prevalso sul M5S, che correva da solo però ha avuto più voti del Pd.

Vista la situazione in quest’ottica, ci sarebbero gli elementi per ritenere inaccettabile questa distorsione, perché irragionevole. La cosa sarebbe tanto più grave rileggendo l’articolo 67 Cost., in base al quale le Camere sono «sedi esclusive della “rappresentanza politica nazionale”»: la sentenza sottolinea come da questo “status”dipenda l’affidamento ai rami del Parlamento di «funzioni fondamentali, dotate di “una caratterizzazione tipica ed infungibile”», funzioni che pongono il Parlamento su un piano diverso rispetto alle «altre assemblee rappresentative di enti territoriali».

In Assemblea costituente si era deciso di non “cristallizzare” la scelta di un sistema proporzionale per le Camere – la Corte lo ricorda – lasciando al legislatore la scelta del sistema «più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico»; questo però non toglie che una legge elettorale debba superare lo «scrutinio di proporzionalità e di ragionevolezza». Nota infatti la Consulta che si deve verificare se il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti abbia compresso troppo uno di essi, e se i mezzi usati dal legislatore siano proporzionati rispetto ai fini da perseguire.

Logo BallotLa valutazione operata dal giudice delle leggi nella sentenza n. 1 del 2014 è chiara: è legittimo puntare alla formazione di «un’adeguata maggioranza parlamentare» che garantisca stabilità di governo e decisioni rapide, ma questo non può portare a ribaltare «la ratio della formula elettorale prescelta dallo stesso legislatore del 2005». In sostanza, la rappresentatività parlamentare sarebbe troppo compressa, in più in questo modo il voto sarebbe meno «eguale» (come chiede l’art. 48, comma 2 Cost.) e non si riconoscerebbe più una formula di impianto proporzionale, mentre gli elettori si aspetterebbero una distribuzione di seggi più in linea con il loro voto (risposta che la Corte dà guardando anche alla giurisprudenza estera).

Fin qui tutto abbastanza chiaro, anche se ci sono alcune osservazioni da fare. A partire proprio dall’ultimo punto, visto che per più di un politologo – a cominciare da Antonio Agosta, che Ballot ha intervistato alla vigilia della sentenza – il Porcellum non delineava affatto un sistema proporzionale (sia pure corretto con premi e sbarramenti), bensì un sistema maggioritario a ripartizione proporzionale: alla Camera l’Italia, Valle d’Aosta esclusa, sarebbe stata dunque un unico, grande collegio plurinominale, in cui la lista o la coalizione che fosse stata davanti anche solo per un voto si sarebbe beccata il 55% dei seggi. Il premio, per l’appunto. Se si possono ritenere costituzionalmente legittimi i sistemi con formula maggioritaria (che certamente, specie quando i concorrenti sono più di due, producono una forte distorsione), allora ha meno senso parlare di soglia e, soprattutto, non ha proprio senso lamentare un ribaltamento del sistema proporzionale.

È invece giusto e perfettamente condivisibile quello che la Corte sostiene a proposito del ruolo delle Camere e della rappresentatività che devono garantire. Come si è visto, sono gli stessi giudici costituzionali a marcare la differenza tra i rami del Parlamento (che hanno funzioni di indirizzo e controllo del Governo e sono attori principali del procedimento di revisione costituzionale) e le assemblee elettive di comuni, province (per ciò che resta) e regioni. Queste differenze ci sono, è vero, ma una considerazione va fatta: se è troppo compressa la rappresentatività della compagine frutto del Porcellum, cosa si dovrebbe dire del sistema di elezione dei sindaci nei comuni con meno di 15mila abitanti? Un sistema che alla fine dell’unico turno assegna il 66% dei seggi alla lista collegata al candidato sindaco che ottiene anche solo un voto in più. Se le liste sono più di tre, si può vince anche con meno del 40%; le ultime riduzioni del numero dei consiglieri comunali hanno ristretto ulteriormente gli spazi per le forze di minoranza, spesso lasciando fuori un gran numero di liste, anche con percentuali non bassissime. Pur nell’evidente differenza dei ruoli, la compressione della rappresentanza non accettata nelle Camere è ammissibile (con effetti anche più visibili) negli enti locali, oppure la sentenza della Corte deve far riflettere il legislatore anche in questo ambito?

Altre censure della Corte riguardano nello specifico il premio previsto al Senato. Oltre all’assenza della soglia, i giudici criticano la conformazione regionale del meccanismo: la maggioranza a Palazzo Madama, infatti, può essere «il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale», producendo magari maggioranze non coincidenti nelle due Camere, a sostanziale parità di voti. In effetti, è andata così nel 2006 e di nuovo nel 2013.

Ora, a parte il fatto che a chiedere la “regionalizzazione” del premio al Senato (tra le modifiche intervenute via via sul “progetto Calderoli”) era stato il Quirinale, ritenendo che l’originario premio nazionale non avrebbe rispettato dell’art. 57, comma 1 («Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale»), bisognerebbe riflettere un po’ su quella disposizione. Un costituzionalista accorto e apprezzato come Temistocle Martines (maestro, tra l’altro, dell’attuale presidente della Corte Silvestri) definì quella frase come «generica, ambigua, polivalente», frutto di «un compromesso malriuscito ed a fatica raggiunto all’Assemblea costituente». Quella formula ambigua sarebbe stata rispettata da un premio nazionale, magari bastando la previsione di circoscrizioni regionali?

Da ultimo, una riflessione va dedicata non solo a quello che è stato tolto, ma anche a ciò che è rimasto. Già, perché se ha demolito il premio di maggioranza, la Corte non ha toccato uno dei suoi presupposti, cioè la possibilità di formare coalizioni (dovendo poi condividere programmi e l’indicazione del “capo”). Se non c’è più un premio cui aspirare e per cui tutte le forze sono utili, a chi serve coalizzarsi? Ai piccoli partiti, per esempio, visto che con le coalizioni sopravvivono anche le soglie di sbarramento privilegiate, che alla Camera alle forze politiche coalizzate piazzano l’asticella per l’ingresso non al 4%, ma al 2%, dando rappresentanza persino alla “migliore perdente” in ogni coalizione (e nel 2013 i best loser sotto al 2% sono stati addirittura tre). Ai partiti maggiori invece coalizzarsi non conviene proprio, se non per far entrare le forze che sono loro più vicine: meno forze entrano in Parlamento, più seggi possono sperare di ottenere. Se non c’è nessun premio da riscuotere, meglio soli che troppo accompagnati.

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Sotto il quadro di Fidel

di Vincenzo Iacovissi

L’incontro avvenuto ieri nella sede del Partito democratico, tra il segretario, Matteo Renzi, e il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ha impresso una poderosa accelerazione alla politica italiana, aprendo, forse, una fase nuova.

Il vertice, come noto, ha avuto ad oggetto le riforme istituzionali, a partire dalla nuova legge elettorale, a seguito delle 3 proposte che il segretario democratico aveva esposto nei primi giorni del nuovo anno. Tutto ciò in un momento politico estremamente delicato, con la tenuta del Governo Letta in perenne rischio a causa di gaffe, scandali ed errori parlamentari che ne stanno accidentando il cammino da qualche tempo.

Ecco perché l’esito dell’incontro di ieri assume una duplice valenza, intrinseca e di prospettiva.

Sotto il primo profilo, è indubbio che l’iniziativa di Renzi abbia prodotto l’effetto di riportare al centro del dibattito la revisione del sistema istituzionale italiano, coinvolgendo gli altri soggetti politici, ad iniziare dal partito più rilevante dell’opposizione dopo il rifiuto opposto  dal M5s ad ogni ipotesi di negoziato. Ma ieri si è sancito anche il ritorno da protagonista di Berlusconi, che incassa una rilegittimazione politica insperata solo fino a poche settimane fa.

Sotto il secondo profilo, il Governo Letta dovrebbe ricevere una iniezione di stabilità dalla stipulazione di un accordo sulle riforme che, in virtù della Carta costituzionale, richiede tempi non rapidissimi di approvazione, e quindi, potrebbe prolungare l’esperienza governativa fino al 2015.

La sintesi dell’accordo:

a)     superamento del bicameralismo paritario, con la trasformazione del Senato in una Camera di rappresentanza delle autonomie, senza legittimazione diretta degli elettori e senza poteri di conferimento e revoca della fiducia verso il Governo. In sostanza, una seconda Camera svuotata del ruolo politico, ma con competenze attinenti alla salvaguardia degli interessi territoriali del Paese;

b)     riforma del Titolo V della Costituzione, riducendo il “peso” legislativo delle Regioni in materie di rilevanza nazionale, come il turismo, in una cornice di ridisegno dei rapporti tra centro e periferia dello Stato;

c)      una nuova legge elettorale capace di assicurare governabilità, bipolarismo e semplificazione del sistema politico, con penalizzazione delle forze minori e previsione di meccanismi in grado di rendere esplicito il risultato del voto espresso dai cittadini.

L’attenzione principale è ora incentrata sul terzo punto dell’accordo, e ci si affida alle indiscrezioni. Le più rilevanti concordano nel sottolineare la nascita, dal pomeriggio di ieri, di un sistema elettorale di impianto proporzionale, con circoscrizioni “piccole” (4-6 seggi) di ambito provinciale, liste bloccate corte (per rispettare i rilievi della Corte costituzionale espressi con la sentenza di annullamento del porcellum), premio di maggioranza tra il 15-20% dei seggi alla lista (o coalizione) che raggiunga una soglia minima di suffragi (35-40%), soglie di sbarramento differenziate ma molto alte, 5% per le liste apparentate, 8% per quelle che corrono in solitaria.

Sempre dalle voci di corridoio si apprende che, prima, durante e dopo l’incontro, il segretario del Nuovo Centro Destra, Angelino Alfano, sia riuscito nella mediazione volta a prevedere un abbassamento ulteriore della soglia interna alle coalizioni (dal 5% al 4%), e ad ottenere che la ripartizione dei seggi avvenga a livello nazionale (come con il porcellum) e non in ambito circoscrizionale (come in Spagna).

Alla luce di quanto si sia riusciti a cogliere in assenza di un testo scritto, che verrà presentato domani pomeriggio da Renzi alla Direzione del PD, si può trarre qualche considerazione finale.

Il sistema “partorito” a Largo del Nazareno si avvicina più al defunto porcellum che al modello spagnolo. È stato, infatti, già correttamente battezzato Italicum, proprio per evidenziarne la tipicità con il nostro ordinamento rispetto ad esperienze straniere.

Da Madrid vengono importate le circoscrizioni piccole e le liste bloccate brevi, ma poco altro. Dal sarcofago del porcellum, invece, vengono riesumate molte cose, l’impianto proporzionalistico con premio di maggioranza, le liste bloccate, la ripartizione nazionale dei seggi, le soglie di sbarramento differenziate, gli apparentamenti e così via.

In sostanza, si potrebbe dire definire l’Italicum come il porcellum adattato ai rilievi della Consulta, con soglia minima per l’accesso al premio e liste bloccate più brevi per favorire una scelta più consapevole da parte degli elettori. Più l’innalzamento delle soglie per l’accesso alla rappresentanza.

Sulla tenuta di tale ipotesi di accordo non è possibile formulare, allo stato, previsioni realistiche. Si può, però, già trarre la conclusione che l’Italia si avvia verso una nuova stagione politica, con differenti protagonisti, e dai contorni istituzionali da chiarire.

Le prossime settimane ci diranno se, sotto il quadro di Fidel,  sarà nata una “nuova” Repubblica, oppure se saremo ancora impanati in quella “vecchia” che, proprio come il lider máximo, seppur tra mille difficoltà, resiste e resta ancora in piedi.

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